THE BRUTALIST
Una occasione per riflettere sugli architetti e l’architettura
E’ uscito da
poco in Italia il film “The brutalist” del regista Brady Corbet, un film lungo
quasi 4 ore ma non pesante https://it.wikipedia.org/wiki/The_Brutalist . L’aspettativa era quella di vedere
raccontare il processo creativo di questa corrente dell’architettura del
secondo dopoguerra ma in effetti il film allora avrebbe dovuto chiamarsi
Brutalism. La corrente architettonica che utilizzava ampiamente il calcestruzzo
a vista, il “beton brut” che ha dato il nome alla corrente artistica. https://it.wikipedia.org/wiki/Brutalismo
Il protagonista
del film: l’architetto László
Tóth è un personaggio inventato interpretato da Adrien Brody (premio
Oscar come migliore attore protagonista), così come la famiglia Lee Van Buren che rappresentano i magnati
industriali e mecenati committenti.
Il film mette in luce comunque alcuni aspetti “brutali”
dell’operare in architettura.
L’”archistar” nel lungo processo della realizzazione di un’opera
architettonica vive solo per il suo lavoro, passano in secondo piano la
famiglia, gli amici e altri aspetti della vita sociale, esiste solo
l’architettura, e la propria architettura, quella dei colleghi, per invidia,
gelosia o egocentrismo non è mai meritevole, quando va bene è mancante di
qualche cosa.
L’altro aspetto critico che il film vuole rappresentare,
forse il centro della tematica è il rapporto architetto e il committente.
L’architettura è una espressione artistica più vicina al
concetto greco di “techne” che comprende il saper fare. Dipende fortemente
dalle risorse economiche del committente e mecenate per cui è sempre stata una
“ancella del potere”. A servizio del potente di turno non solo per la
monumentalità. Dai faraoni, al potere politico dei greci, dei romani, della
chiesa, degli imperi nazionali fino al capitalismo famigliare che sono i
coprotagonisti del film. Nella realtà di questo periodo storico si pensi al
ruolo di famiglie come i Guggenheim, i Rockefeller, i Lehman Brothers, sia per
quello che hanno realizzato e anche per i lasciti che si possono ora ammirare
alle National Gallery di New York e di Washinton. I poteri forti delle
oligarchie e dittature sono stati importati committenti, si pensi all’interesse
di Le Corbusier nei confronti di Mussolini e di Stalin che riteneva potessero
essere in grado di realizzare le sue proposte urbanistiche. Gli stati
democratici sono sempre stati un po’ in affanno, tranne forse la
presidenzialista e centralista Francia.
I committenti attuali sono le grandi società capitaliste
impersonali e globali oltre alle oligarchie arabe, ma anche gli studi di
architettura sono ormai oltre la dimensione personale.
L’architettura più delle altre forme artistiche soffre del
rapporto col committente, un’opera architettonica deve essere realizzata se no
non esiste; è un’opera che è “abitata” affrontando non solo questioni tecniche
realizzative, di linguaggio artistico ma anche sociali e di uso. Nel film
László interrogato sul perché si è dedicato all’architettura dà la seguente
definizione: "Non c’è descrizione migliore del cubo che la sua stessa
costruzione." Interrogato il capitalista Harrison Lee Van Buren sullo
stesso argomento afferma: "Per me è tutta una questione di collezioni. È
come se ogni opera, ogni pezzo di bellezza, fosse un cimelio da esibire."
L’architetto è debole nei confronti del committente e si
trova a difendere fino a sembrare maniacale la sua creazione, vive un forte
senso di ansia da prestazione: “l’errore di un medico si seppellisce sotto
terra, quello dell’architetto è sotto gli occhi di tutti”. Alla fine dell’opera
l’architetto può sentirsi defraudato nella sua opera creatrice, dalla mancanza
di risorse dagli errori di realizzazione dalle interferenze dell’impresa o del
committente. Nel film la scena dello stupro è esagerata ed eccessiva come un
passaggio dal “figurativo al realistico”.
Anche la conservazione delle architetture presenta aspetti
specifici rispetto alle altre arti. Gli interventi e le modifiche, al di là
delle operazioni di restauro, ma determinate invece da mutate esigenze di
“abitare” in modo diverso gli spazi, causano la perdita dell’opera originaria.
Si è parlato degli scorsi anni nelle operazioni di recupero di “contenitori
architettonici”.
I cosiddetti “Maestri del movimento moderno” ma forse gli
architetti in genere sono stati accusati di voler “disegnare la società” in
realtà è la vita e la storia che danno senso all’architettura, anche
reinventando e riusando le opere architettoniche.
La vicenda è inventata ma ci sono diversi riferimenti reali,
la citazione della Bauhaus e della sedia di Marcel Breuer. Storicamente diversi
esponenti di questa scuola faranno in tempo a lasciare la Germania nazista
prima di subire la persecuzione e i campi di prigionia (Walter Gropius, Ludwig
Mies van der Rohe avranno successo negli Stati Uniti) al contrario del
protagonista e della sua famiglia.
Altri riferimenti architettonici ripresi sono i piloni “a
fungo” di F.L. Wright (lontano dal linguaggio del brutalismo) pensati per
creare ambienti luminosi e qui al contrario in un ambiente claustrofobico
simile alla Basilica Cisterna di Istambul. Ci sono anche alcuni riferimenti
alle architetture di Louis Kahn, più vicino agli altri citati all’architettura
brutalista. Tra Kahn e László ci sono altre affinità: la provenienza dall’Est
Europa, anche se Kahn, che si chiamava in realtà Schmuilowsky, lascia l’Europa
prima dell’avvento del nazismo, entrami ebrei, entrambi arrivano in
Pennsylvania, entrami con problemi fisici al volto, entrambi con complessi
rapporti famigliari.
Alcuni intermezzi sulla Pennsylvania e su Filadelfia che in
quegli anni erano la regione e la città più industrializzate degli Stati Uniti,
con il riferimento alla produzione di acciaio sembrano riproporre il nesso tra
sviluppo industriale e tecnologico e lo sviluppo dell’architettura del periodo
tra le due guerre, a partire da Reyner Banham “L’architettura della prima età
della macchina” del 1960 e che si ritrova anche nella “Storia dell’architettura
moderna” di Leonardo Benevolo.
L’epilogo a chiusura del film ambientato in una Biennale di
Architettura di Venezia del 1980 propone una lettura del linguaggio
architettonico delle opere di László come influenzate dalle esperienze
drammatiche vissute direttamente e dai suoi famigliari nelle persecuzioni
naziste e nei campi profughi sovietici. È questa una lettura funzionale alla
chiusura del film ma che non può essere assunta in generale per la corrente del
“Brutalismo” sviluppata in altri contesti e con espressioni abbastanza
diversificate seppure in presenza di volumi massicci come: l’Università di
Cambridge di Stirling (1968) o gli edifici di Chandigarh di Le Corbusier
(1951-1965) o ancora gli edifici per il Parlamento a Dacca di Kahn (1962).
Un’ultima suggestione, non so quanto azzardata. La scena
dello stupro è ambientata al termine di una festa che si svolge all’interno di
una grotta delle cave di marmo nella Alpi Apuane, strana ambientazione, le cave
di marmo sono a cielo aperto come si vede poco prima nel film. La scelta
narrativa potrebbe fare riferimento al “Mito della Caverna” di Platone.
L’allegoria è utilizzata per riflettere sulla necessità della conoscenza della
realtà per l’elaborazione del pensiero. La passione creatrice oltre a consumare
l’artista gli offusca la visione della realtà? Il sapere, la sapienza, la
conoscenza come si combinano nella “tèchne” dell’architettura?
Se dà da pensare si può dire che tutto sommato è un bel film.