lunedì 25 novembre 2019

Bellusco nel terremoto dell'Irpinia del 1980


Ricordi belluschesi 3

Bellusco nel terremoto dell'Irpinia del 1980

Oggi 23 novembre ricorre l’anniversario del terremoto in Irpinia, era il 1980 39 anni fa. È stato il mio primo intervento di protezione civile anche se non ancora inquadrato in una organizzazione (del resto la protezione civile ancora non esisteva), si era attivato un gruppo di uomini e giovani intorno all’oratorio. In realtà la mente di tutto è stato Don Fedele parroco di Porto d’Adda (ma anche insegnante di religione al Banfi) che insieme ai suoi parrocchiani si era mobilitato per il terremoto del Friuli del 1977, in quella occasione con un aggancio di parrocchiani originari dei paesi terremotati era riuscito ad organizzare un intervento diretto con squadre di volontari che hanno montato case provvisorie utilizzando le baracche di cantiere, quindi raccolta fondi, acquisti delle baracche di cantiere, trasporto sul posto e montaggio, tutto in gestito in proprio con volontari. Sulla base di questa esperienza tre anni dopo si rimette in moto la macchina organizzativa per l’Irpinia, scegliendo anche questa volta un centro periferico rispetto al “cratere” dell’evento: Spiano, una frazione di Mercato San Severino in provincia di Salerno. Stavolta l’intervento è più impegnativo e Don Paolo raccoglie l’appello di Don Fedele e la parrocchia di Bellusco partecipa attivamente all’operazione. Le squadre si alternavano ogni settimana e anche il modello di baracche scelto cambia, si sceglie un modello un po’ più confortevole, si realizza la piattaforma di calcestruzzo come piattaforma e poi sopra si montano le casette provvisorie. Come volontari eravamo ospiti delle famiglie che avevano conservato la casa senza danni. Don Fedele no, lui dormiva sul pulmino che serviva per il viaggio perché aveva paura dei terremoti e non si fidava a dormire nelle case. Il contatto in questo caso era il parroco che chiamavamo “don terremoto” perché si ostinava ad usare la chiesa per le funzioni anche se il tetto presentava una evidente apertura. Ma a “don terremoto” non mancava la dialettica raccontava una sera dopo il lavoro che in paese era ancora in vigore la pratica di far benedire dal parroco la nuova automobile appena acquistata, ora un parrocchiano subito dopo la benedizione fa un incidente in cui si salva la vita ma la macchina non è recuperabile e ritorna dal parroco per chiedere chiarimenti sull’efficacia della sua benedizione e lui gli risponde “Cosa vuoi di più ti sei salvato la vita!”.
Sono state diverse le persone di Bellusco che si sono impegnate nella raccolta fondi e poi che si sono alternate nelle settimane di lavoro a Spiano. La continuità del cantiere era garantita da due ragazzi di una comunità di recupero per tossico dipendenti. Sembra incredibile, ma è stata questa la terapia che li ha tirati fuori, un’operazione che solo il coraggio di sognare di Don Fedele poteva concepire. Uno dei ragazzi mi ha raccontato che era sceso anche suo padre a trovarlo e continuava a piangere perché non ci credeva che fosse proprio suo figlio a fare questa cosa.
Spiano era una frazione poverissima, l’unica attività produttiva era la realizzazione di scale a pioli in legno, con tutta una lavorazione artigianale incredibile per raddrizzare i legni dei montanti laterali. L’impatto con questo sud e con la famiglia che mi ha ospitato è stato molto forte, intanto il ricordo di una pasta e fagioli che ormai è diventata mitica, non ce né stata più nessuna uguale. Il locale per il pranzo aveva il pavimento in terra battuta ma aveva un televisore da cui passavano le pubblicità dei prodotti per la pulizia dei pavimenti e mi domandavo se solo io vedevo la contraddizione. Il personaggio più importante della famiglia era il figlio maggiore, qualche anno più di me, aveva ottenuto un impiego fisso e pubblico al catastato! E “teneva il 128”. La figlia che chiedeva anche lei di fare la patente aveva messo in crisi la famiglia: cosa avrebbero detto in paese di una ragazza che fa la patente?
Ad un certo punto l’operazione Spiano arriva alle orecchie della Caritas Ambrosiana che doveva decidere come utilizzare i fondi raccolti, chiama Don Fedele e gli da carta bianca ma per intervenire su Sant’Angelo dei Lombardi, nell’epicentro dell’area. La città aveva perso nel terremoto il sindaco, tutto il consiglio comunale e il vescovo, la direzione amministrativa viene assegnata al farmacista e poi gira la voce che vorrebbero Don Fedele come vescovo, ma lui si oppone deciso, tra l’altro gli chiedono di utilizzare i fondi per ricostruire l’”episcopio”. Ma Don cos’è? Io con quel nome conosco solo un apparecchio in grado di proiettare sul muro le pagine di un libro (prima delle nuove tecnologie, in qualche scuola lo potrete trovare negli scantinati), ma no! “E’ la casa del vescovo”. Non se ne parla neanche con tutta la città a terra. Studia e ristudia Don Fedele tira fuori un’altra delle sue idee. “Qui l’attività principale è l’allevamento ma poi il latte lo vendono a prezzi bassi, ma se invece gli mettiamo in piedi una cooperativa agricola per l’uso dei mezzi agricoli e gli facciamo imparare a produrre e commercializzare i formaggi prodotti, superiamo il terremota gli diamo una svolta”. Detto fatto, mette in piedi anche una attività formativa, alcuni agricoltori di Sant’Angelo vengono ospitati per un periodo e formativo presso aziende agricole del sud Milano per poi ritornare a mettere in piedi le attività di trasformazione.
Don Fedele non si può farlo santo perché poi si è innamorato, si è sposato, ha avuto un figlio che ha battezzato con il mio nella notte di Pasqua del 1989 a Fontanelle da Turoldo.
Aggiungo la foto della nostra squadra, tre belluschesi, un ragazzo di Vimercate e i due ragazzi che gestivano la continuità del cantiere.

La Latteria


Ricordi belluschesi 2

La Latteria

Stavo raccogliendo i pensieri per ordinarli in altri ricordi belluschesi, ma stamattina ci ha lasciato “ul Mandel” e allora mi concentro sulla “Latteria”, Personaggi pieni di vita ed esuberanti che può portarseli via solo un infarto. Adesso Enzo ricomincerà le sue interminabili discussioni con l’altro protagonista del bar: il “Ca-Carletu” sul calcio o meglio su Milan e Inter.
La Latteria ha aperto nel 1963 e subito qualche tempo dopo ha cominciato ad essere frequentata dai giovani belluschesi ed è stata il punto di riferimento per la “beat generation” belluschese.
50 metri quadri in totale, due banchi, quello della latteria e quello del bar, tre tavolini, 12 sedie il jukebox (50 lire una canzone 100 lire tre canzoni) e il flipper, quest’ultimo a furie di spinte e colpi d’anca, ma senza mandarlo in tilt, ha lasciato i segni scavando le piastrelle del pavimento. Un retro che in teoria doveva essere la cucina privata ma che in pratica diventava il prolungamento del bar, ogni tanto quando tornavo da scuola mi trovavo a mangiare in un angolo del tavolo mentre sullo stesso tavolo della cucina giocavano a carte. Durante il mio turno di servizio per leggere mi rincantucciavo tra la vetrina e la macchina del caffè.
Non esisteva il divieto di fumo per cui spesso l’aria diventava irrespirabile
Il bar non serviva super alcolici se non per la correzione del caffè, le bevande più diffuse quelle più economiche: la gazzosa, la spuma (in tutte le sue varianti), l’acqua e menta, d’estate grandi quantitativi di ghiaccioli.
All’inizio era frequentato anche da diverse ragazze, con grande scandalo in paese. Ragazzi e ragazze, giovani, insieme nello stesso bar si diceva: “è come mettere la paglia insieme al fuoco”. Poi il machismo l’ha fatta da padrone le ragazze sono scappate. Per evitare gli sguardi insistenti e il “gallismo machista” di quei giovani le ragazze evitavano di passarci davanti, oppure altre ci passavano spesso.
Però stranamente per un periodo il sabato e domenica sera d’estate, quando i giovani andavano nelle sale da ballo arrivavano le famiglie per farsi una coppa di gelato con l’amarena Fabbri.
Se d’inverno lo spazio era davvero “ristretto” non impediva però di organizzare tornei di scopa, di “cutecc” e perfino di scacchi.
D’estate lo spazio si dilatava tutto all’esterno fino ad occupare il marciapiedi al di là di via Bergamo.
I giovani erano studenti e lavoratori ma in generale le disponibilità economiche erano limitate. Erano gli anni del boom economico, le prime automobili, le prime vacanze in riviera romagnola o a Lignano.
Se avete presente i film dei Vanzina sugli anni ’60 qui li ho visti o sentiti raccontati tutti dal vero. La goliardia era sempre nell’aria ma divieto assoluto di bestemmiare se no si sentiva il rimprovero di Giannina.
Il bar all’inizio non aveva il giorno di chiusura ma chiudeva solo mezza giornata a Natale, ma anche nel pomeriggio di Natale si trovavano li fuori e non sapendo dove andare magari si inventavano di andare a prendere un caffè a Venezia.
Oppure quella volta che avevano accompagnato il loro amico in stazione centrale a Milano che partiva per il CAR a Genova e poi si sono guardati in faccia e si dicono “cosa facciamo adesso?” Ed uno: “E se gli facciamo una sorpresa e andiamo in macchina a Genova ad aspettarlo alla stazione?” Detto fatto.
I ricordi sarebbero tantissimi, magari qualche cliente di allora si sbilancia a raccontare quello che si può raccontare, ma come non ricordare la gara a cronometro di ciclismo inventata li per li una domenica pomeriggio, o i tornei di calcio.
Come per tutte le generazioni di giovani erano in conflitto con gli adulti, a bar chiuso continuavano a rimare li fuori o a giocare a calcio sull’incrocio di via Roma via Bergamo e allora dalle finestre intorno arrivavano secchiate d’acqua condite con l’epiteto “andì in lecc barbuni”.
Si lasciava la compagnia appena si “metteva la testa a posto”, qualcuno ha passato li diverse ondate e a un certo punto sono comparsi anche due anziani: “ul Fredu” e “il Cigno” che probabilmente non volevano invecchiare.
Qui sono comparsi i primi capelloni, i pantaloni a zappa d’elefante, le camicie a fiori, il maxi-cappotto, gli eskimo, i jeans sfrangiati, le espadrillas.
Il pezzo forte della latteria era la cioccolata con la panna.
Nel 1977 la Latteria si converte in pasticceria, divieto di fumo e niente carte da gioco. Si interrompe il passaggio generazionale, anche se il pezzo forte della pasticceria: le pizzette il sabato pomeriggio, un certo passaggio si è mantenuto.
La gestione del bar si è conclusa alla fine del 2010 con una grande festa degli ex nel cortile.
Allego il link alla canzone di Davide Van De Sfroos “L’esercito delle dodici sedie” che richiama molto dell’atmosfera del bar

La via Bergamo a Bellusco negli anni '60


Ricordi belluschesi 1

La via Bergamo a Bellusco negli anni '60

Agli inizi degli anni Sessanta la via Bergamo era ancora molto disabitata, partendo dalla via Roma e uscendo dal paese c’erano già sulla sinistra la villa Gatti, quella della farmac
ia, e quella dopo detta dei Cagnola. La villa Carozzi che era già suddivisa in appartamenti, la cascina “bergamina” ora scomparsa, l’officina di “Guido fere” ora trasformata in palestra, il cortile della “furnas” toponimo che richiama una preesistente fornace, la casa dei Brambilla con la carrozzeria e la concessionaria Volkswaghen e poi un nucleo intorno alla cascina Bellana che era l’ultima casa del paese. Sulla destra il condominio d’angolo con la via Suardo è stato terminato nel ’63, prima c’era un giardino e frutteto con una recinzione che non impediva ai ragazzi di scavalcare per “rubare” un po’ di frutta, un paio di fabbricati più o meno di fronte alla farmacia e poi più nulla fino al nucleo di fronte alla “furnas” attiguo alla Lei Tsu un ulteriore edificio vicino e poi più nulla. I condomini che troviamo ora sulla destra sono stati realizzati nella seconda metà degli anni ’60. Non esisteva Corso Alpi.
La via non aveva i marciapiedi ma fossi laterali scolmatori, con paracarri in granito grandi quanto un bambino di 5-6 anni, i ragazzi un po’ più grandi riuscivano ad andarci a cavalcioni. Sul lato nord lungo la recinzione Gatti, fino alla villa Carozzi esisteva un terrapieno piuttosto alto su cui da bambini si giocava e ci si rincorreva. La scarsa luminosità ci permetteva nelle sere di maggio, dopo l’uscita della chiesa per la recita del rosario, di andare a caccia delle lucciole, in alternativa al gioco dei quattro cantoni con le colonne del pronao della chiesa. Il rientro a casa comprendeva la ramanzina perché si era fatto tardi e perché si era tutti sudati.
Al posto della via Pascoli c’era un sentiero immerso in un boschetto di robinie in cui d’estate da ragazzi si costruivano le mitiche capanne, nella zona con ragazzi un po’ più grandi e con notevoli abilità manuali si costruivano capanne complesse e anche sopraelevate. Il nostro terrore era “Batiston” un burbero contadino, imponente come un armadio, cacciatore che girava spesso in bicicletta con il fucile in spalla e il cane al guinzaglio della bicicletta, abitava nella cascina bergamina e se ci scopriva a fare le capanne ci sgridava e minacciava, per cui quando si era nelle capanne era necessario un servizio di guardia che avvisasse “arriva Batiston via tutti”.
Non esisteva neanche la via Papa Giovanni, ma un sentiero che continuava nel boschetto di robinie, esisteva però la via Verdi che si concludeva con la casa del maestro Accordino, dove ora c’è l’autoscuola Dossena, penso che anche questa casa sia stata costruita in quegli anni, il sentiero poi piegava in quella che ora è la via Bellini e poi andava verso Camuzzago. Il maestro Accordino oltre che insegnante nella scuola elementare ha svolto per qualche anno il ruolo di direttore didattico.