sabato 27 giugno 2020

Scuola e didattica a distanza


Scuola e didattica a distanza

C’è un ragionamento sulla scuola che è maggioritario nell’opinione pubblica e che è stato anche uno slogan molto presente nelle manifestazioni dei giorni scorsi: che il lavoro fatto nella fase della Didattica A Distanza (DAD) non sia scuola. Affermazione che trovo offensiva rispetto ai tantissimi insegnanti che hanno lavorato anche di più di quanto avveniva nella Didattica In Presenza, tra chi già si era cimentato di suo nell’uso TIC per fare didattica e chi ci si è buttato improvvisando e imparando in fretta ad utilizzare questi strumenti. Si sono commessi errori in questa attività? Probabilmente tanti (solo pochi hanno il coraggio di autoassolversi del lavoro fatto in questi mesi in tutti i campi), è normale in una fase di emergenza; (affascinante anche i diversi significati che la parola emergenza ha nella lingua italiana, ma andrei fuori tema). L’errore più vistoso è stato quello di pensare di replicare la strumentazione della didattica in presenza a quella a distanza, compresa la valutazione. Errore d’impostazione che si rischia di ripetere anche per la ripresa a settembre. La mancanza di competenze diffuse, nonostante gli investimenti degli scorsi anni sulla formazione in questo senso, tra insegnanti e dirigenti, ha portato spesso a non capire quali fossero le potenzialità e i limiti della DAD (ma anche della didattica in presenza), a partire dalla differenza che si può fare tra la Formazione A Distanza e l’e-learning; dove nel secondo caso diventa centrale l’interazione sia con gli strumenti didattici che tra gli studenti.
I dati raccolti in tempo reale mettono in evidenza un problema di forte divaricazione tra gli studenti in merito alle condizioni domestiche, alle disparità territoriali sulla infrastruttura della connessione (due aspetti su cui la scuola non ha molti strumenti d’intervento) la mancanza di competenze digitali e di strumenti individuali adeguati, aspetti su cui invece la scuola può fare qualcosa di più. Sull’ultimo punto della strumentazione però dovremmo metterci d’accordo, fino a poco prima della chiusura sembrava che il problema fosse esattamente l’opposto con ministri che scrivevano circolare in cui non solo vietavano l’uso di cellulari e tablet a scuola, ma addirittura il possesso di questi strumenti; scuole che integravano l’arredo dell’aula con apposito armadietto in cui chiudere a chiave i cellulari degli studenti, lamentando l’eccessiva invasione di questi strumenti.
L’emergenza sanitaria ha richiesto la chiusura fisica delle scuole a cui si è cercato di sopperire con una strumentazione diversa che richiede una didattica diversa meno trasmissiva e più attiva e collaborativa da parte degli studenti, diversificata anche rispetto all’età degli studenti stessi. Ho l’impressione (solo questa per ora) che gli errori più vistosi li abbiamo fatti con gli studenti più grandi, quelli con cui potenzialmente è possibile una maggiore applicazione delle potenzialità delle TIC, rispetto agli ordini scolatici del primo grado in cui la didattica attiva e collaborative era già più presente prima della chiusura, come già ribadito da più parti il problema prioritario è la didattica rispetto alla strumentazione.
Ritengo che la DAD sia stata comunque scuola, una scuola diversa e che spero sia in grado di fornire apporti interessanti anche alla didattica in presenza da settembre, confidando che l’epidemia sia ridotta entro limiti di rischi accettabili per ridurre il distanziamento sociale. E’ stata più scuola ad esempio dell’idea di ricominciare la (didattica?) in presenza per una settimana o per fare la festa di fine anno.
Che l’e-learning sia una possibilità con cui misurarsi nella didattica quotidiana lo si può vedere, anche limitandoci all’ambito formativo, alla sviluppo che stanno avendo le università on line, ai MOOC che tutte le principali università e centri di formazione stanno proponendo in un ottica di life long learning, alla fortuna anche economica che hanno avuto esperienze come quelle della Khan Academy o altre forse meno famose ma molto utilizzate dai nostri studenti come la pagina youtube di Elio Bombardelli (non solo influencer quindi), o anche ancora più modestamente la mia pagina che ha ora 730 iscritti (quasi tutti non sono miei studenti, loro accedono ai filmati dalla piattaforma della scuola senza la necessità di iscriversi).
Grandi innovazioni nel campo dell’e-learning sono state fatte da alcune case editrici, dalla Zanichelli alla Treccani, ma anche da altri soggetti dalla RAI, all’archivio Alinari, moltissimi musei in tutto il mondo.
Si dice che dopo la pandemia non sarà più uguale a prima (vedremo) per cui sono rimasto perplesso nello scoprire che tra gli slogan delle manifestazioni scorse ci fosse anche l’avversione contenuta in un evanescente bozza del MIUR, della possibilità di contemperare l’integrazione tra DAD e didattica in presenza e anche contro l’affermazione (senza i conseguenti fatti) della necessità di estendere la formazione degli insegnanti e stavolta si spera non per una didattica con le TIC ma per una didattica nelle TIC.
Si dice che la DAD sia priva di una componente fondamentale della didattica che è la relazione, ora proprio il passaggio dalla Formazione A Distanza all’e-learning ha come punto centrale l’elemento dell’interattività e della collaborazione per il raggiungimento del risultato; in cui è importante il ruolo del tutor per alimentare e tenere vivi gli aspetti relazionali. La mancanza di coscienza dei diversi ruoli e compiti necessari per attivare una didattica in e-learning rischia di continuare l’improvvisazione dei mesi scorsi.
Dovremo anche accordarci sul tipo di relazione, di empatia e di benessere che la scuola (secondo alcuni psicanalisti comunque un archetipo paterno) deve assicurare agli studenti, che è centrata sull’apprendimento. Tutta la passione e anche l’amore che l’insegnante mette nella relazione con lo studente è focalizzata all’apprendimento in quanto crescita, essendo relazione può anche non essere condivisa, ma in quanto professionisti della formazione tocca a noi insegnanti capire come impostare il lavoro.

martedì 9 giugno 2020

I boschetti di robinie


Ricordi belluschesi 9

I boschetti di robinie

Venendo da Vimercate verso Bellusco dal provinciale, nella stagione estiva, ci si presenta un paesaggio molto significativo. Una cortina di alberi copre il paese ma da questa emergono come presenza significativa la chiesa e il campanile. Anche poi svoltando per entrare nell’abitato una bella quinta di robinie introduce scenograficamente il paese. Sembra quasi di entrare in un bosco per poi arrivare nella radura e trovare le case.
Mi ricordo che si era espresso più o meno in questi termini anche il Cardinale Martini durante la sua visita pastorale a Bellusco
Questo importante elemento del paesaggio è caratterizzato dalla presenza della robinia, il nome botanico è Robinia pseudoacacia, è una pianta originaria dell’America del Nord, leggiamo su Wikipedia: “Fu importata in Europa dall'America del Nord nel 1601 da Jean Robin, farmacista e botanico del re di Francia Enrico IV. L'esemplare proveniva dalla Virginia. Secondo la maggior parte delle fonti, nel 1601 Jean Robin ne piantò un esemplare nell'attuale piazza René Viviani, sulla Rive gauche, nei pressi della chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre; esso è ancora esistente, anche se danneggiato nella parte più alta della chioma dai bombardamenti della Prima guerra mondiale e sostenuto da tre pilastri in cemento. Ciononostante, continua a fiorire ogni primavera, da oltre quattrocento anni. Dei più di 370.000 alberi dei viali e parchi parigini quest'esemplare è comunemente considerato il più antico, oltre ad essere l'acacia più longeva d'Europa. È presente nell'elenco ufficiale degli "alberi notevoli di Francia" (Arbres remarquables de France) ed ha una circonferenza di circa 3,90 metri”.
Dalla fine del Settecento da albero ornamentale botanico si è diffuso come coltivazione produttiva. In quel periodo c’è stato un forte aumento del prezzo del granoturco e un po’ come noi ora seguiamo il prezzo del petrolio, allora i forti cambiamenti economici erano determinati dai prezzi dei prodotti agricoli. Il governo austriaco emana una serie di provvedimenti economici per incentivare la produzione del mais promuovendo il disboscamento delle aree, anche quelle meno produttive come le brughiere.
Anche nel territorio di Bellusco spariscono in quegli anni boschi di “essenze forti”. Il legname però continua ad essere la principale fonte energetica da riscaldamento per cui si piantano sulle rive e i dislivelli del terreno dovute a ragioni geologiche, difficilmente coltivabili, boschetti di robinie.
La fortuna di questa pianta è determinata da diversi fattori: una crescita molto rapida tanto da permettere un taglio produttivamente efficace in tre anni, una riproduzione molto intensa per polloni direttamente dalle radici, tanto da farla ritenere una pianta infestante per gli altri tipi di bosco, la produzione di legname molto duro e resistente all’acqua utile per la paleria, gli attrezzi ma anche le scale a pioli. Per i montanti laterali delle scale a pioli si sceglieva una pianta bella dritta e la si lasciava crescere anche più di tre anni in modo vere un tronco della dimensione utile, la pianta assumeva il titolo di “scalet”. I fiori, “laciarei” sono commestibili e posso essere utilizzati nelle frittelle. Il fusto e le foglie sono tossici anche se qualcuno racconta che la corteccia era utilizzata per cicatrizzare le ferite da taglio.
Tra sette e ottocento quindi anche il paesaggio belluschese si è molto trasformato popolandosi dei boschetti di robinie, la collocazione di questi boschetti poco profondi disegnavano comunque una specie di enclave, un dentro che era il paese e un fuori che neanche si vedeva e diventa lontano, separando, a volte, anche l’abitato dalle frazioni.
Venendo un po’ meno la funzione economica la permanenza di questi boschetti è determinata proprio dalla persistenza della robinia che a noi mantiene una certa variabilità ecologica, dei corridoi ecologici nord sud per la fauna e un paesaggio che riconcilia l’anima.

domenica 1 marzo 2020

Corona virus, emergenza, protezione civile


Corona virus, emergenza, protezione civile


Anche mentre sto scrivendo mi sto chiedendo se è necessario farlo, visto che in questi giorni abbiamo una valanga di parole ed opinioni su questa emergenza per cui non sono così certo che valga la pena di aggiungerne altre. Cercherò di contenere il campo di riflessione sul tema protezione civile. Lo faccio da una esperienza ventennale di volontario e di formatore dei volontari.
La protezione civile in Italia ha avuto una sua legge cardine nel 1992, prima quindi del decentramento di questa funzione alle regioni. La gestazione di questa legge è stata molto lunga e travagliata come spesso capita in Italia. Gli albori risalgono all'esperienza dell’alluvione di Firenze del 1966 in cui sono comparsi sulla scena un numero consistenti di volontari chiamati poi “gli angeli del fango”, animati da tanto impegno ma senza nessuna organizzazione o strutturazione, caratteristiche che possono compromettere le azioni di soccorso necessarie. Prima di allora le emergenze erano gestite solamente dai militari, anch'essi senza specifica preparazione ma con una struttura organizzativa molto forte e una catena di comando collaudata. Tant'è che parecchio del gergo militare è entrato anche nel linguaggio della protezione civile. Il secondo evento “fondativo” è stato il terremoto del Friuli del 1977 in cui collaborano come volontari gli ex alpini dell’ANA, quindi già un po’ più strutturati e organizzati. In questa occasione il commissario prefettizio, l’On. Zamberletti si fa promotore della necessità di avere una apposita legge che strutturasse la protezione civile in Italia. La legge come abbiamo detto arriva molto dopo, nel frattempo la gestione di altre emergenze governata centralmente risultano gravemente inefficaci, tra tutte va ricordata la gestione del terremoto dell’Irpinia del 1980 dove anche a seguito dell’intervento diretto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, ad emergenza in corso, viene richiamato l’On. Zamberletti a porre rimedio alle gravi disfunzioni del soccorso.
Con queste premesse la protezione civile in Italia, diversamente che in altri paese europei nasce come un “servizio” non un corpo autonomo, un servizio che è in grado di coordinare altri servizi e corpi dello Stato per una attività di previsione, prevenzione e mitigazione dei rischi, per la gestione delle emergenze e il loro superamento. All'interno di questo servizio hanno un ruolo principale i vigili del fuoco e i volontari sono solo un elemento (nella nuova formulazione del D. Lgs 1/2018 nell'elenco dei componenti i volontari sono al quinto posto).
L’organizzazione della protezione civile in Italia è formulata secondo il principio della sussidiarietà verticale secondo cui le autorità più vicine al bisogno sono le più adatte ad affrontarlo. La legge individua tre livelli. Il primo livello chiamato “A” si riferisce ad una emergenza gestibile a livello comunale, con il Sindaco che è “autorità di protezione civile”. Un documento successivo, chiamato “metodo augustus” ha indicato come struttura operativa a livello comunale il Centro Operativo Comunale (oppure l’Unità di Crisi Locale). Se invece l’emergenza richiede un intervento di coordinamento più ampio in termini territoriali o di risorse viene classificata di tipo “B” coordinata in origine dal Prefetto che attiva il Centro Operativo Misto oppure il Centro Coordinamento Soccorsi. Su questo livello ha ora competenza anche il Presidente della Regione che attiva il Centro Operativo Regionale, inoltre la regione può dichiarare lo “stato di calamità”. Se l’emergenza richiede l’attivazione di poteri straordinari viene definita di tipo “C”, può essere dichiarato un primo momento lo “stato di mobilitazione”, un allertamento e coordinamento di tutte le strutture sotto ordinate, oppure lo “stato di emergenza” in cui si attiva il Dipartimento della Protezione Civile con la nomina di un Commissario Prefettizio e con una struttura chiamata “Direzione di Comando e Controllo” (DICOMAC) di solito collocata in un’area sicura vicino all'evento. Nella dichiarazione dello stato di emergenza vengono chiariti i poteri straordinari del Commissario Prefettizio. Il livello comunale, provinciale e regionale elaborano i piani di protezione civile, la Regione Lombardia ha coordinato, anche con dei format l’unitarietà della redazione di questi piani. I piani contengono l’individuazione dei pericoli di un determinato territorio, la conseguente valutazione del rischio, le operazioni di previsione e prevenzione del rischio e la descrizione degli “scenari di rischio” in cui si indica chi fa che cosa in ogni momento dell’emergenza.
Questa organizzazione sussidiaria verticale in realtà non è entrata correttamente nelle attività delle amministrazioni territoriali che tendono ad occuparsi di protezione civile e di emergenza solo ad emergenza in corso, per cui alla domanda dell’allora Sindaco di Roma Allemanno o anche a quella recente dell’Assessore Regionale lombardo Gallera “dov'è la protezione civile?” La risposta non può che essere “la protezione civile sei tu”.
Prendendo in considerazione la più semplice delle equazioni che definiscono il rischio come valutazione di un pericolo: R = F x M dove R sta per rischio, F per frequenza o probabilità che quel pericolo si manifesti in quel determinato territorio e M sta per magnitudo, cioè la quantità di danni che il manifestarsi di quel pericolo può causare a quel contesto territoriale e sociale, si ricavano alcune considerazioni.
Per ridurre il rischio si può lavorare sulla la probabilità che quel pericolo si manifesti, questa operazione si ottiene con la PREVENZIONE, se invece si vogliono ridurre gli effetti di un rischio nell'ipotesi che la prevenzione non arrivi ad azzerare la possibilità che il pericolo si manifesti si lavora dunque sulla magnitudo con azioni di PROTEZIONE.
Da tempo si sottolinea una difficoltà di gestione del livello B, dove i due soggetti: Prefetto (territorialmente provinciale) e il Presidente di Regione hanno spesso un coordinamento difficile, del resto non è possibile eliminare il ruolo del prefetto che ha autorità su corpi dello Stato su cui il Presidente di Regione non ne ha : vigili del fuoco ( in realtà avrebbero potuto essere regionalizzati, i “pompieri” era un corpo comunale) forze armate, forze di polizia. Mentre la regione ha poteri sul volontariato, i servizi sanitari, le strutture di previsione e ambientali.
L’art. 16 del D.Lgs 1/2018 inquadra gli eventi di tipo igienico -sanitario non tra quelli principali di protezione civile ma tra quelli per cui si interviene “ferme restando le competenze dei soggetti ordinariamente individuati ai sensi della vigente normativa di settore”. Ma nel momento in cui si decide di intervenire con il servizio di protezione civile si deve intervenire con le sue strutture. Dichiarato lo stato d’emergenza, quindi intervento di livello nazionale, si nomina il commissario prefettizio, gli si assegnano i poteri esecutivi necessari, si installa la DICOMAC in un punto strategico per l’emergenza e da lì si coordinano tutti gli interventi che il Governo provvede a ratificare quando necessario.
Se torniamo alla equazione del rischio, nel caso del corona virus, si evidenziano alcuni problemi applicativi:
La comunità scientifica non è concorde nella definizione e descrizione del PERICOLO è un dato che non abbiamo molti strumenti certi e sicuri per intervenire sulla PROTEZIONE, per ridurre il RISCHIO non si hanno a disposizione che interventi per ridurre la FREQUENZA di manifestazione del pericolo, anche in termini di impatto socio economico, attualmente quindi si può intervenire riducendo drasticamente le possibilità di contagio con scelte che impattano a loro volta sulla quotidianità dei cittadini e sulle attività economiche che garantiscono la socialità.
Altra questione è il rapporto tra emergenza e comunicazione, già con l’alluvione di Firenze abbiamo avuta la presenza dei vip nello scenario (perfino Ted Kennedy), poi abbiamo avuto la tragedia di Vermicino 1981 che ha segnato un capitolo anche sulla storia della televisione, ora però abbiamo i social che aprono un nuovo capitolo del rapporto tra attività in emergenza e comunicazione per cui andrà trovato un nuovo equilibrio.

Alla fine, il pezzo è forse troppo lungo, ho detto la mia, chiedo scusa se per caso ho contribuito a generare più confusione.

martedì 4 febbraio 2020

Famiglia i nomi e l’urbanistica


Ricordi belluschesi 8

Famiglia i nomi e l’urbanistica

I miei parenti paterni sono chiamati “i troni” e deriva dal fatto che il mio bisnonno gestiva una osteria. Probabilmente l’importazione dei vini di più forte valore alcolico dal sud serviva per tagliare vini di minore gradazione alcolica della nostra zona, quindi l’importazione di vino da Trani: località della Puglia ha dato il nome alle osterie che erano chiamate “trani”.
Nelle nostre campagne la vite era coltivata “maritata” ai gelsi, si usavano cioè i gelsi come supporto per i tralci della vite. Nell'ultimo ventennio dell’Ottocento la fillossera a distrutto gran parte del patrimonio viticolo europeo e anche da noi le viti originarie sono state sostituite dalla vite “americana”, con scarse qualità dal punto di vista vinicolo, si produceva un vino dolciastro chiamato “ul pincianel” di uso ormai strettamente personale. Da allora sarà quindi aumentata l’attività di importazione dei vini da altre parti d’Italia.
L’osteria era situata in via Bergamo all'altezza degli attuali numeri civici 24 e 26 recentemente ristrutturati da un ramo della famiglia “di troni”. Sulla mappa catastale del 1855 questa zona del paese non era ancora urbanizzata ma si possono notare le variazioni successive che vanno a raddrizzare ed allargare la vecchia “strada del castello” che diventa importante asse di traffico, la realizzazione della linea ferrata del 1890 ha dato la configurazione attuale di questa zona. La linea del tram era utilizzata anche per il trasporto merci e in questa zona era presente un binario morto che serviva per il carico e lo scarico delle merci ed era probabilmente collocato sull'attuale
era a parcheggio, le case in questo tratto sono arretrate rispetto a quelle che vanno verso la piazza. Da notare inoltre che i cortili che si formano sono molto diversi da quelli tradizionali, sono infatti insediamenti commerciali, a partire dal civico 14 che era chiamata “curt del negusiont” e anche ai numeri civici 18, 20 e 22 e quelli di fronte. Erano cortili senza stalle, un corpo edilizio sul lato corto verso strada e poi il lotto si sviluppava in profondità con portici o laboratori per il deposito o la lavorazione delle merci. In fianco, appunti, c’era l’osteria “di troni”.
I tre figli del mio bisnonno non hanno continuato l’attività ma hanno cambiato indirizzo, mio nonno Enrico (Ricü), tre figli e Adrea (Indrien), sette figli, hanno gestito in comune fino alla fine della Seconda guerra mondiale un commercio di vitelli, inoltre vivevano come un’unica famiglia (anche tra secondi cugini ci si sente in realtà un po’ primi) Mario invece ha gestito una macelleria a Boviso Masciago, poi portata avanti dal figlio Osvaldo. L’Osvaldo ogni tanto arriva a Bellusco con una bicicletta sportiva da corsa oppure con qualche auto sfolgorante di cui era appassionato.
Mio nonno Enrico era un tipo particolare e molto volitivo, ha avuto tre figli mio papà Ettore, Luigi e Carlotta, ma si lamentava di tutti e tre, secondo lui non sarebbero stati in grado di portare avanti l’attività. “Ste nuove generazioni chissà cosa saranno in grado di fare!” (Non mi sembra nuova questa affermazione).
La moglie si è ammalata di cuore per cui al momento della separazione delle famiglie con il fratello Andrea la zia Carlotta già sposata c’era quindi bisogno di una donna in casa e così che hanno accelerato il matrimonio dei miei che si sono sposati il 2 gennaio del 1947, i festeggiamenti si sono svolti in casa con tutto da preparare e il nonno che imprecava contro la zia Carlotta che non si faceva vedere salvo poi scoprire che aveva partorito un figlio proprio lo stesso giorno. Al contrario dei figli la nuora gli era entrata in simpatia. Gli piaceva molto la mostarda e diceva a mia madre che morto lui non l’avrebbero più comprata a Natale perché mio padre spendeva troppi soldi per comprare libri e giornali (effettivamente una passione che ha poi mantenuto), è così che invece, anche da noi sotto le feste di Natale si comprava una latta da 5 chili di mostarda proprio per smentire il nonno.
L’attività di compravendita dei vitelli comportava la gestione di una stalla nel cortile che con il continuo via vai di mezzi e bestiame spesso si sporcava, mia madre provvedeva a spazzolare il cortile, ma anche su questo il nonno aveva una sua opinione: “Va bene pulire, ma non troppo, qualche filo di paglia bisogna lasciarlo, perché se no la gente pensa che lì non si lavori abbastanza”. Nei racconti dei miei genitori l’apoteosi delle sue stranezze l’ha raggiunta una volta che dopo una furiosa litigata aveva concluso un contratto in cui si era sentito raggirato e ha preso i soldi li ha gettati nel letame della stalla e li rimestava, con mia madre che cercava di calmarlo.
E veniamo alla storia dei nomi, un po’ particolare. Quando nasce mio fratello eredita il nome del nonno: Enrico, quando nasce mia sorella il parroco decide che deve ereditare il nome della nonna quindi Enrichetta. Soltanto che la nonna non si chiamava affatto Enrichetta, ma Rachele, tutti la chiamavano Enrichetta in quanto moglie di Enrico, tra l’altro siccome la cognata si chiamava effettivamente Enrica in paese venivano chiamate Richeten e Richeton Il parroco si accorge dell’errore subito dopo il battesimo ma ormai la cosa era registrata e si rifarà su mia cugina due anni dopo.
Morto mio nonno l’attività di compravendita dei vitelli l’ha portata avanti mio papà. Comprava i vitelli nei mercati della Val Brembana a San Giovanni Bianco e poi con una specie di mezzadria li assegnava ai contadini che li richiedevano da ingrassare, al momento della vendita del vitello l’importo era diviso a metà, se il vitello fosse morto la perdita sarebbe rimasta a carico dei miei. Un contratto effettivamente un po’ strano, ma da noi non esistevano grandi allevamenti di bestiame da carne.
Per svolgere questa attività, morto il nonno, mio padre acquista un camion. Con questo mezzo che in settimana veniva usato per i vitelli, la domenica si metteva una panca di legno nel cassone e si ricordano gite memorabili con tutti i cugini a: Madonna del Bosco, Caravaggio, Madonna della Cornabusa.
I miei genitori erano molto impegnati prima in Azione Cattolica, poi nei Comitati Civici della Democrazia Cristiana, una specie di super militanti in chiave anticomunista che dovevano sostenere la difficili campagne elettorali del 46 e del 48, mi hanno raccontato che una volta col famoso camion sono andati con un gruppo di aderenti belluschesi al comizio di De Gasperi in piazza Duomo a Milano e galvanizzati dal leader decidono di attraversare il centro di Sesto San Giovanni (che loro chiamavano Sesto San Palmiro) con gli uomini nel cassone scoperto a catare a squarciagola l’inno della DC “bianco fiore” recuperando ovviamente una fitta sassaiola. Questo episodio in realtà è saltato fuori in famiglia quando negli anni Settanta si discuteva animatamente di politica con mio padre che mi dava dell’”estremista”, quando la discussione si animava un po’ troppo, mia madre per calmare le acque si metteva in mezzo e rivolta a mio papà: “dai tas che se dervi me ul liber…”

giovedì 16 gennaio 2020

Storie, fuochi e donne di Brianza


Ricordi belluschesi 7

Storie, fuochi e donne di Brianza

Mi ricordo di una storia che mi raccontavano da piccolo e che ho scoperto poi essere un frammento di folklore dei nostri paesi, il frammento che mi hanno tramandato è questo:
Delle donne sposate volevano organizzare una festa ad insaputa dei loro mariti, si mettono d’accordo per il giorno stabilito, e dopo che i mariti si sono addormentati si trovano in una cucina a preparare il risotto con la salsiccia. I mariti si accorgono della festa dallo spioncino che dal pavimento della camera metteva in comunicazione i due locali e che serviva per far salire un po’ di calore per riscaldare le camere soprastanti. I mariti quindi si organizzano per combinare uno scherzo alle mogli. Vanno sul tetto e fanno scendere dal camino una calza rossa impagliata recitando:
O donne divote
andate a letto che è mezzanotte
l’è san Peder che cumanda
se non volete creder guardate questa gamba.
Al che le donne terrorizzate scapparono gridando: “La Gibiana! la Gibiana!” E i mariti scesero a mangiare il risotto con la salsiccia.
Così raccontata la storia ha una connotazione evidentemente antifemminista. Solo dopo un po’ e lavorando sulla storia del paesaggio agrario per la tesi di laurea mi sono imbattuto nel libro di Franca Pirovano “Momenti di folklore in Brianza” pubblicato da Sellerio nel 1985 e ora ripubblicato con altri scritti, sempre dalla stessa autrice in “Sacro, magia e tradizioni in Brianza” da La Vita Felice nel 2019. Franca Pirovano è una studiosa di etnologia sulla scia del più famoso Ernesto de Martino.
La storia della Gibiana è molto più complessa, secondo la studiosa potrebbe essere addirittura una divinità celtica propiziatrice della fertilità che volava nei boschi (quindi anche sui tetti), la presenza della desinenza “ana” nel nome si deve probabilmente alla contaminazione della cultura celtica con quella romanza in cui la divinità assume le sembianze di Diana protettrice della natura. Il mito poi è stato contaminato in tutte le epoche storiche successive, fino alla operazione culturale sollecitata da San Carlo Borromeo ai parroci di estirpare i riti pagani tra i contadini o di trasformare le feste pagane in feste religiose. Anche questa festa della Gibiana in parte è stata riletta e in parte combattuta, quella che Franca Pirovano è riuscita a ricostruire una settantina d’anni fa tra le cascine delle colline brianzole parla di una festa popolare che si svolgeva l’ultimo giovedì di gennaio.
Per tutto il giorno le ragazze da marito giravano acconciate come streghe facendo rumore percuotendo delle latte e anche i giovani non ancora sposati partecipavano con i trick e trak cantando un ritornello:
E viva viva la Gibiana
un quart de luganiga
un quart de luganeghen
viva viva Giuanen.
(Viva viva la Gibiana/un quarto di salsiccia/ un quarto di cotechino/viva viva Giovannino) che era l’invito a preparare la cena del risotto con le salsicce e la catasta per il falò della sera (diverse infatti sono le tradizioni dei falò di fine gennaio).
Dopo cena sul falò si bruciava il fantoccio della Gibiana non tanto come atto negativo ma come atto propiziatorio per la prossima stagione agricola (diversi gli esempi di fuoco propiziatorio compreso quello di bruciare un rametto dell’ulivo della festa delle palme in presenza di forti temporali estivi), nelle caratteristiche della fiamma si prevedeva l’andamento dei prossimi mesi e anche la possibilità per le giovani di trovare marito, infatti intorno al falò si gridava:
El va ‘l giné de la buna ventura
me sun nè maridada nè impumatuda
el va ‘l giné e me resti indré.
(Se ne va gennaio della buona ventura /non sono né maritata né promessa/ se ne va gennaio e io resto indietro)
Da qui la studiosa non è riuscita a ricostruire bene quale ruolo avesse il frammento di storia che riguarda le donne già sposate ricordato all'inizio e che si raccontava ancora a Bellusco una cinquantina d’anni fa. Del resto, l’inserimento di San Pietro nella filastrocca ci dice che la rilettura cattolica era forse il tentativo di riportare il mito della Gibiana, attiva divinità femminile, nell'ambito delle regole famigliari. Da ricordare inoltre che è collegato alla festa di Sant’ Agata il 5 febbraio il ritrovo conviviale delle donne sposate.
La cultura popolare ricorda spesso il conflitto tra mogli e marito che si svolgeva tra le mura domestiche ma che non doveva trapelare da lì, riporto il link ad una di queste canzoni riscoperte da Nanni Svampa che ha svolto anch’esso una poderosa ricerca nella canzone popolare milanese.


L'è tri dì ch'el pioeuv e'l fiòcca (E’ tre giorni che piove e nevica)
el mè marì l'è nò tornà, (mio marito non è tornato)
ò ch'el se perduu in la fiòcca (o si è perso nella nevicata)
ò ch'el se dismentegà (o si è dimenticato)
Derva quell'ùss, corpo de bìss (Apri quest’uscio, corpo di biscia)
derva quell'ùss, sangue de bìss, (apri quest’uscio, sangue di biscia)
derva quell'ùss, Marianna! (apri quest’uscio Marianna!)
In doe te see staa, corpo de bìss (dove sei stato, corpo di biscia)
in doe te see staa sangue de bìss, (dove sei stato, sangue di biscia)
in doe te see staa, Martino? (dove sei stato Martino?)
Son stà al mercà, corpo de bìss (Sono stato al mercato corpo di biscia)
son stà al mercà, sangue de bìss, (sono stato al mercato, sangue di biscia)
son stà al mercà, Marianna! (sono stato al mercato Marianna!)
Cos t'è comprà, corpo de bìss, (Cosa hai comprato corpo di biscia)
cos t'è comprà, sangue de bìss, (cosa hai comprato sangue di biscia)
cos t'è comprà, Martino? (cosa hai comprato Martino?)
On bel cappel, corpo de bìss, (Un bel cappello, corpo di biscia)
on bell capell, sangue de bìss, (un bel cappello, sangue di biscia)
on bel cappel, Marianna! (un bel cappello Marianna!)
Cos te gh'è dà, corpo de bìss, (Quanto l’hai pagato corpo di biscia)
cos te gh'è dà, sangue de bìss, (quanto l’hai pagato sangue di biscia)
cos te gh'è dà, Martino? (quanto l’hai pagato Martino?)
Gh'hoo dà cinq frànch, corpo de bìss, (L’ho pagato cinque soldi, corpo di biscia)
gh'hoo dà cinq franc, sangue de bìss, (l’ho pagato cinque soldi, sangue di biscia)
gh'hoo dà cinq frànch Marianna! (L’ho pagato cinque soldi, Marianna!)
Te gh'è da tròpp, corpo de bìss, (L’hai pagato troppo, corpo di biscia)
te gh'è da tròpp, sangue de bìss, (l’hai pagato troppo, sangue di biscia)
te gh'è da tròpp, Martino! (l’hai pagato troppo, Martino!)
Son mì el padron, corpo de bìss, (Sono io il padrone, corpo di biscia)
son mì el padron, sangue de bìss, (sono io il padrone, sangue di biscia)
son mì el padron, Marianna! (sono io il padrone, Marianna!)
Te doo on s'giaffon, corpo de bìss, (Ti do una sberla, corpo di biscia)
te doo on s'giaffon, sangue de bìss, (ti do una sberla, sangue di biscia)
te doo on s'giaffon, Martino! (ti do una sberla, Martino!)
Cià, fasèmm la pàs, corpo de bìss, (Dai facciamo la pace, corpo di biscia)
cià, fasèmm la pàs, sangue de bìss, (dai facciamo la pace, sangue di biscia)
fasèmm la pàs Marianna! (facciamo la pace, Marianna!)
Fèmm on ballett, corpo de bìss, (Facciamo un ballo, corpo di biscia)
fèmm on ballet, sangue de bìss, (facciamo un ballo, sangue di biscia)
fèmm on ballett, Martino! (facciamo un ballo, Martino!)
L'è tri dì ch'el pioeuv e'l fiòcca, (E’ tre giorni che piove e nevica)
mè marì l'è tornà a cà (mio marito è tornato a casa)
per pù perdel in la fiòcca (per non perderlo più nella nevicata)
mì l'hoo sarà su in la cà . (io l’ho chiuso in casa.)


Parliamo di famiglia


Ricordi belluschesi 6

Parliamo di famiglia

Ho preso l’occasione di queste ultime vacanze per fare un giorno nella zona del confine nazionale friulano, con tappa al Sacrario di Redipuglia dove mi avevano raccontato è sepolto il fratello di mio nonno che si chiamava Gaetano Parolini, morto durante la I° Guerra Mondiale, il sacrario non è completamente vistabile per restauri che dovrebbero concludersi entro marzo 2020, ma sul sito del monumento mi hanno fatto vedere che Parolini Gaetano effettivamente è sepolto li.
La famiglia Parolini è quella di mia mamma, otto fratelli che si sono sposati e hanno avuto figli tutti qui a Bellusco, per cui il livello della “cuginanza” è molto ampio. Mi capita di parlare con qualcuno non originario del paese e magari salta fuori un nome e di dire: “certo che lo conosco, è mio parente”, dopo due o tre volte mi sento dire: “ma insomma sono tutti tuoi parenti a Bellusco”, no ovviamente ma siamo in tanti e anche strategicamente posizionati, i miei avevano la latteria, uno zio la tabaccheria e osteria del paese ed un altro zio un negozio di alimentari – salumeria. Se comprendiamo anche i fratelli del nonno nel parentado entrava anche un macellaio, una rivendita di vino, un falegname poi il figlio elettrauto, un imprenditore edile, tutti a Bellusco. Anche la terza generazione è largamente presente in paese.
I capostipiti: nonno Francesco detto “Cecc” di cui ho ereditato il nome e nonna Ambrogina ma chiamata “Bigina” anche perché di corporatura minuta. Le prime tre figlie femmine, mi raccontano che all’osteria il nonno veniva preso un po’ in giro perché non “arrivava il maschio”, e poi cinque maschi. Otto figli la prima del 1922 e l’ultimo del 1939.
I nonni avevano entrambi il cognome Parolini, entrambi di Bellusco ma venivano da due ceppi diversi, al di là del cognome le famiglie erano identificate per l’appellativo. Il nonno era degli “Spagnou” la nonna dei “Bision”, gli zii raccontano che gli “Spagnou” erano più solari socievoli, mentre i “Bision” un po’ più rigidi e infatti il nonno sapeva cucinare bene, la nonna meno, era più portata perle pulizie di casa, il rammendo e i lavori a maglia. Se avessi voluto mangiare un buon risotto avrebbe dovuto cucinarlo il nonno.
Le condizioni economiche dell’agricoltura, a partire, più o meno, dal XVIII secolo hanno influito sulla organizzazione sociale della famiglia, nella bassa pianura padana dove l’agricoltura era molto fiorente e gestita in modi imprenditoriale si consolida la grande cascina con la “famiglia patriarcale”, quella del film di Bertolucci “Novento”, per intenderci. A Nord della pianura l’agricoltura è meno produttiva e la famiglia si divide nella “famiglia mononucleare”, quella del film di Olmi “L’albero degli zoccoli”, sempre in mode esemplificativo. Spesso le famiglie, anche se divise, rimangono ad abitare nella stessa corte che ne prende il nome.
Le famiglie contadine della nostra zona avevano con un contratto ad affitto a grano, una quota fissa di grano (indipendentemente dall’annata) per l’affitto dei campi e della casa che il “fittavolo” raccoglieva per conto del proprietario. L’allevamento del baco da seta era spesso invece a mezzadria. Ogni famiglia aveva a disposizione dei locali ed una stalla, ma con pochi animali perché la gestione dell’agricoltura non permetteva il mantenimento di più animali. Il lavoro dei campi era largamente manuale per cui era necessario avere tanti figli, almeno per un periodo dell’anno, per portare a termine i lavori agricoli.
Proprio quando la famiglia di nonno Cecc era in crescita il proprietario terriero decide di vendere ai singoli affittuari, così, come la gran parte delle famiglie belluschesi, anche lui si indebita per poter comprare i terreni su cui lavorava, tra l’altro non attigui ma divisi secondo le caratteristiche produttive: un pezzo ai “marcion” o nei “quader”, nei “ger”, ai “garioul” e un pezzo di boschetto per la legna da riscaldamento. La casa e la stalla in “stal de matua”. Per diversi periodi dell’anno la manodopera famigliare era in esubero per cui la nonna va a lavorare nella filatura Carozzi con le figlie a dare una mano nella gestione famigliare (mi dicono che mia mamma aveva sempre un po’ del caporale). Quando diventano poco più grandi anche loro al lavoro in tessitura o a “fare i mestieri” nelle case di famiglie più facoltose.
I figli maschi invece iniziavano la loro carriera lavorativa alle dipendenze dello zio imprenditore edile ed erano quindi tutti in grado di fare i muratori, è così che si sono costruiti la casa. Si faceva realizzare all’impresa la parte portante e poi tutto il clan famigliare collaborava il sabato, la domenica (su dispensa del parroco) e nei pomeriggi per tutto il lavoro di completamento in “autocostruzione”.
Alla realizzazione di una di queste ho collaborato un po’ anch’io. La mia è stata la prima generazione che ha avuto la possibilità di studiare, questa cosa non era ben digerita dagli zii che si lamentavano “se tutti vanno a studiare chi farà andare la cazzuola?”. Avevo scelto il corso geometra per cui era abbastanza attinente al lavoro di autocostruzione e sono stato coinvolto nel dare il mio aiuto, li mi hanno visto lavorare e hanno sentenziato “meglio che continui a studiare, il lavoro manuale non fa per te”. La cosa che non andava bene era il fatto che continuassi a lavarmi le mani; cosa devo farci se la polvere di laterizio e del cemento mi dava fastidio e i guanti non erano ancora in uso corrente, comunque ho fatto una specie di “alternanza scuola – lavoro” ante litteram. Due i pranzi previsti per ogni cantiere, all’arrivo del tetto e a fine lavori.
L’animatore socio-culturale del parentado è stato lo zio Carlo, organizzatore di gite in pullman e pranzi di famiglia. Avevamo anche dei parenti lontani, una sorella del nonno, la zia Maria sposata a un Dozio, di cantone, la loro famiglia aveva dovuto trasferirsi a Pont Saint Martin in Valle d’Aosta perché lì si era sposta da Sesto l’acciaieria Viola in cui lavorava il capofamiglia. I parenti lontani venivano, oltre che nelle occasioni canoniche di famiglia, tutti gli anni, fino a poco tempo fa, anche alla festa del paese per vedere i carri e rincontrare i parenti, per noi andare a trovare la zia Maria era l’occasione di fare gite e vacanze in montagna.
I nonni ci hanno lasciato dopo 68 anni di matrimonio, come in una storia romantica a due mesi di distanza l’uno dall’altro.
Difficile sostituire anche il ruolo dello zio Carlo, ma qualcosa ogni tanto si combina lo stesso anche se la “cuginanza” si allarga sempre di più.