giovedì 16 gennaio 2020

Storie, fuochi e donne di Brianza


Ricordi belluschesi 7

Storie, fuochi e donne di Brianza

Mi ricordo di una storia che mi raccontavano da piccolo e che ho scoperto poi essere un frammento di folklore dei nostri paesi, il frammento che mi hanno tramandato è questo:
Delle donne sposate volevano organizzare una festa ad insaputa dei loro mariti, si mettono d’accordo per il giorno stabilito, e dopo che i mariti si sono addormentati si trovano in una cucina a preparare il risotto con la salsiccia. I mariti si accorgono della festa dallo spioncino che dal pavimento della camera metteva in comunicazione i due locali e che serviva per far salire un po’ di calore per riscaldare le camere soprastanti. I mariti quindi si organizzano per combinare uno scherzo alle mogli. Vanno sul tetto e fanno scendere dal camino una calza rossa impagliata recitando:
O donne divote
andate a letto che è mezzanotte
l’è san Peder che cumanda
se non volete creder guardate questa gamba.
Al che le donne terrorizzate scapparono gridando: “La Gibiana! la Gibiana!” E i mariti scesero a mangiare il risotto con la salsiccia.
Così raccontata la storia ha una connotazione evidentemente antifemminista. Solo dopo un po’ e lavorando sulla storia del paesaggio agrario per la tesi di laurea mi sono imbattuto nel libro di Franca Pirovano “Momenti di folklore in Brianza” pubblicato da Sellerio nel 1985 e ora ripubblicato con altri scritti, sempre dalla stessa autrice in “Sacro, magia e tradizioni in Brianza” da La Vita Felice nel 2019. Franca Pirovano è una studiosa di etnologia sulla scia del più famoso Ernesto de Martino.
La storia della Gibiana è molto più complessa, secondo la studiosa potrebbe essere addirittura una divinità celtica propiziatrice della fertilità che volava nei boschi (quindi anche sui tetti), la presenza della desinenza “ana” nel nome si deve probabilmente alla contaminazione della cultura celtica con quella romanza in cui la divinità assume le sembianze di Diana protettrice della natura. Il mito poi è stato contaminato in tutte le epoche storiche successive, fino alla operazione culturale sollecitata da San Carlo Borromeo ai parroci di estirpare i riti pagani tra i contadini o di trasformare le feste pagane in feste religiose. Anche questa festa della Gibiana in parte è stata riletta e in parte combattuta, quella che Franca Pirovano è riuscita a ricostruire una settantina d’anni fa tra le cascine delle colline brianzole parla di una festa popolare che si svolgeva l’ultimo giovedì di gennaio.
Per tutto il giorno le ragazze da marito giravano acconciate come streghe facendo rumore percuotendo delle latte e anche i giovani non ancora sposati partecipavano con i trick e trak cantando un ritornello:
E viva viva la Gibiana
un quart de luganiga
un quart de luganeghen
viva viva Giuanen.
(Viva viva la Gibiana/un quarto di salsiccia/ un quarto di cotechino/viva viva Giovannino) che era l’invito a preparare la cena del risotto con le salsicce e la catasta per il falò della sera (diverse infatti sono le tradizioni dei falò di fine gennaio).
Dopo cena sul falò si bruciava il fantoccio della Gibiana non tanto come atto negativo ma come atto propiziatorio per la prossima stagione agricola (diversi gli esempi di fuoco propiziatorio compreso quello di bruciare un rametto dell’ulivo della festa delle palme in presenza di forti temporali estivi), nelle caratteristiche della fiamma si prevedeva l’andamento dei prossimi mesi e anche la possibilità per le giovani di trovare marito, infatti intorno al falò si gridava:
El va ‘l giné de la buna ventura
me sun nè maridada nè impumatuda
el va ‘l giné e me resti indré.
(Se ne va gennaio della buona ventura /non sono né maritata né promessa/ se ne va gennaio e io resto indietro)
Da qui la studiosa non è riuscita a ricostruire bene quale ruolo avesse il frammento di storia che riguarda le donne già sposate ricordato all'inizio e che si raccontava ancora a Bellusco una cinquantina d’anni fa. Del resto, l’inserimento di San Pietro nella filastrocca ci dice che la rilettura cattolica era forse il tentativo di riportare il mito della Gibiana, attiva divinità femminile, nell'ambito delle regole famigliari. Da ricordare inoltre che è collegato alla festa di Sant’ Agata il 5 febbraio il ritrovo conviviale delle donne sposate.
La cultura popolare ricorda spesso il conflitto tra mogli e marito che si svolgeva tra le mura domestiche ma che non doveva trapelare da lì, riporto il link ad una di queste canzoni riscoperte da Nanni Svampa che ha svolto anch’esso una poderosa ricerca nella canzone popolare milanese.


L'è tri dì ch'el pioeuv e'l fiòcca (E’ tre giorni che piove e nevica)
el mè marì l'è nò tornà, (mio marito non è tornato)
ò ch'el se perduu in la fiòcca (o si è perso nella nevicata)
ò ch'el se dismentegà (o si è dimenticato)
Derva quell'ùss, corpo de bìss (Apri quest’uscio, corpo di biscia)
derva quell'ùss, sangue de bìss, (apri quest’uscio, sangue di biscia)
derva quell'ùss, Marianna! (apri quest’uscio Marianna!)
In doe te see staa, corpo de bìss (dove sei stato, corpo di biscia)
in doe te see staa sangue de bìss, (dove sei stato, sangue di biscia)
in doe te see staa, Martino? (dove sei stato Martino?)
Son stà al mercà, corpo de bìss (Sono stato al mercato corpo di biscia)
son stà al mercà, sangue de bìss, (sono stato al mercato, sangue di biscia)
son stà al mercà, Marianna! (sono stato al mercato Marianna!)
Cos t'è comprà, corpo de bìss, (Cosa hai comprato corpo di biscia)
cos t'è comprà, sangue de bìss, (cosa hai comprato sangue di biscia)
cos t'è comprà, Martino? (cosa hai comprato Martino?)
On bel cappel, corpo de bìss, (Un bel cappello, corpo di biscia)
on bell capell, sangue de bìss, (un bel cappello, sangue di biscia)
on bel cappel, Marianna! (un bel cappello Marianna!)
Cos te gh'è dà, corpo de bìss, (Quanto l’hai pagato corpo di biscia)
cos te gh'è dà, sangue de bìss, (quanto l’hai pagato sangue di biscia)
cos te gh'è dà, Martino? (quanto l’hai pagato Martino?)
Gh'hoo dà cinq frànch, corpo de bìss, (L’ho pagato cinque soldi, corpo di biscia)
gh'hoo dà cinq franc, sangue de bìss, (l’ho pagato cinque soldi, sangue di biscia)
gh'hoo dà cinq frànch Marianna! (L’ho pagato cinque soldi, Marianna!)
Te gh'è da tròpp, corpo de bìss, (L’hai pagato troppo, corpo di biscia)
te gh'è da tròpp, sangue de bìss, (l’hai pagato troppo, sangue di biscia)
te gh'è da tròpp, Martino! (l’hai pagato troppo, Martino!)
Son mì el padron, corpo de bìss, (Sono io il padrone, corpo di biscia)
son mì el padron, sangue de bìss, (sono io il padrone, sangue di biscia)
son mì el padron, Marianna! (sono io il padrone, Marianna!)
Te doo on s'giaffon, corpo de bìss, (Ti do una sberla, corpo di biscia)
te doo on s'giaffon, sangue de bìss, (ti do una sberla, sangue di biscia)
te doo on s'giaffon, Martino! (ti do una sberla, Martino!)
Cià, fasèmm la pàs, corpo de bìss, (Dai facciamo la pace, corpo di biscia)
cià, fasèmm la pàs, sangue de bìss, (dai facciamo la pace, sangue di biscia)
fasèmm la pàs Marianna! (facciamo la pace, Marianna!)
Fèmm on ballett, corpo de bìss, (Facciamo un ballo, corpo di biscia)
fèmm on ballet, sangue de bìss, (facciamo un ballo, sangue di biscia)
fèmm on ballett, Martino! (facciamo un ballo, Martino!)
L'è tri dì ch'el pioeuv e'l fiòcca, (E’ tre giorni che piove e nevica)
mè marì l'è tornà a cà (mio marito è tornato a casa)
per pù perdel in la fiòcca (per non perderlo più nella nevicata)
mì l'hoo sarà su in la cà . (io l’ho chiuso in casa.)


Parliamo di famiglia


Ricordi belluschesi 6

Parliamo di famiglia

Ho preso l’occasione di queste ultime vacanze per fare un giorno nella zona del confine nazionale friulano, con tappa al Sacrario di Redipuglia dove mi avevano raccontato è sepolto il fratello di mio nonno che si chiamava Gaetano Parolini, morto durante la I° Guerra Mondiale, il sacrario non è completamente vistabile per restauri che dovrebbero concludersi entro marzo 2020, ma sul sito del monumento mi hanno fatto vedere che Parolini Gaetano effettivamente è sepolto li.
La famiglia Parolini è quella di mia mamma, otto fratelli che si sono sposati e hanno avuto figli tutti qui a Bellusco, per cui il livello della “cuginanza” è molto ampio. Mi capita di parlare con qualcuno non originario del paese e magari salta fuori un nome e di dire: “certo che lo conosco, è mio parente”, dopo due o tre volte mi sento dire: “ma insomma sono tutti tuoi parenti a Bellusco”, no ovviamente ma siamo in tanti e anche strategicamente posizionati, i miei avevano la latteria, uno zio la tabaccheria e osteria del paese ed un altro zio un negozio di alimentari – salumeria. Se comprendiamo anche i fratelli del nonno nel parentado entrava anche un macellaio, una rivendita di vino, un falegname poi il figlio elettrauto, un imprenditore edile, tutti a Bellusco. Anche la terza generazione è largamente presente in paese.
I capostipiti: nonno Francesco detto “Cecc” di cui ho ereditato il nome e nonna Ambrogina ma chiamata “Bigina” anche perché di corporatura minuta. Le prime tre figlie femmine, mi raccontano che all’osteria il nonno veniva preso un po’ in giro perché non “arrivava il maschio”, e poi cinque maschi. Otto figli la prima del 1922 e l’ultimo del 1939.
I nonni avevano entrambi il cognome Parolini, entrambi di Bellusco ma venivano da due ceppi diversi, al di là del cognome le famiglie erano identificate per l’appellativo. Il nonno era degli “Spagnou” la nonna dei “Bision”, gli zii raccontano che gli “Spagnou” erano più solari socievoli, mentre i “Bision” un po’ più rigidi e infatti il nonno sapeva cucinare bene, la nonna meno, era più portata perle pulizie di casa, il rammendo e i lavori a maglia. Se avessi voluto mangiare un buon risotto avrebbe dovuto cucinarlo il nonno.
Le condizioni economiche dell’agricoltura, a partire, più o meno, dal XVIII secolo hanno influito sulla organizzazione sociale della famiglia, nella bassa pianura padana dove l’agricoltura era molto fiorente e gestita in modi imprenditoriale si consolida la grande cascina con la “famiglia patriarcale”, quella del film di Bertolucci “Novento”, per intenderci. A Nord della pianura l’agricoltura è meno produttiva e la famiglia si divide nella “famiglia mononucleare”, quella del film di Olmi “L’albero degli zoccoli”, sempre in mode esemplificativo. Spesso le famiglie, anche se divise, rimangono ad abitare nella stessa corte che ne prende il nome.
Le famiglie contadine della nostra zona avevano con un contratto ad affitto a grano, una quota fissa di grano (indipendentemente dall’annata) per l’affitto dei campi e della casa che il “fittavolo” raccoglieva per conto del proprietario. L’allevamento del baco da seta era spesso invece a mezzadria. Ogni famiglia aveva a disposizione dei locali ed una stalla, ma con pochi animali perché la gestione dell’agricoltura non permetteva il mantenimento di più animali. Il lavoro dei campi era largamente manuale per cui era necessario avere tanti figli, almeno per un periodo dell’anno, per portare a termine i lavori agricoli.
Proprio quando la famiglia di nonno Cecc era in crescita il proprietario terriero decide di vendere ai singoli affittuari, così, come la gran parte delle famiglie belluschesi, anche lui si indebita per poter comprare i terreni su cui lavorava, tra l’altro non attigui ma divisi secondo le caratteristiche produttive: un pezzo ai “marcion” o nei “quader”, nei “ger”, ai “garioul” e un pezzo di boschetto per la legna da riscaldamento. La casa e la stalla in “stal de matua”. Per diversi periodi dell’anno la manodopera famigliare era in esubero per cui la nonna va a lavorare nella filatura Carozzi con le figlie a dare una mano nella gestione famigliare (mi dicono che mia mamma aveva sempre un po’ del caporale). Quando diventano poco più grandi anche loro al lavoro in tessitura o a “fare i mestieri” nelle case di famiglie più facoltose.
I figli maschi invece iniziavano la loro carriera lavorativa alle dipendenze dello zio imprenditore edile ed erano quindi tutti in grado di fare i muratori, è così che si sono costruiti la casa. Si faceva realizzare all’impresa la parte portante e poi tutto il clan famigliare collaborava il sabato, la domenica (su dispensa del parroco) e nei pomeriggi per tutto il lavoro di completamento in “autocostruzione”.
Alla realizzazione di una di queste ho collaborato un po’ anch’io. La mia è stata la prima generazione che ha avuto la possibilità di studiare, questa cosa non era ben digerita dagli zii che si lamentavano “se tutti vanno a studiare chi farà andare la cazzuola?”. Avevo scelto il corso geometra per cui era abbastanza attinente al lavoro di autocostruzione e sono stato coinvolto nel dare il mio aiuto, li mi hanno visto lavorare e hanno sentenziato “meglio che continui a studiare, il lavoro manuale non fa per te”. La cosa che non andava bene era il fatto che continuassi a lavarmi le mani; cosa devo farci se la polvere di laterizio e del cemento mi dava fastidio e i guanti non erano ancora in uso corrente, comunque ho fatto una specie di “alternanza scuola – lavoro” ante litteram. Due i pranzi previsti per ogni cantiere, all’arrivo del tetto e a fine lavori.
L’animatore socio-culturale del parentado è stato lo zio Carlo, organizzatore di gite in pullman e pranzi di famiglia. Avevamo anche dei parenti lontani, una sorella del nonno, la zia Maria sposata a un Dozio, di cantone, la loro famiglia aveva dovuto trasferirsi a Pont Saint Martin in Valle d’Aosta perché lì si era sposta da Sesto l’acciaieria Viola in cui lavorava il capofamiglia. I parenti lontani venivano, oltre che nelle occasioni canoniche di famiglia, tutti gli anni, fino a poco tempo fa, anche alla festa del paese per vedere i carri e rincontrare i parenti, per noi andare a trovare la zia Maria era l’occasione di fare gite e vacanze in montagna.
I nonni ci hanno lasciato dopo 68 anni di matrimonio, come in una storia romantica a due mesi di distanza l’uno dall’altro.
Difficile sostituire anche il ruolo dello zio Carlo, ma qualcosa ogni tanto si combina lo stesso anche se la “cuginanza” si allarga sempre di più.