giovedì 16 gennaio 2020

Parliamo di famiglia


Ricordi belluschesi 6

Parliamo di famiglia

Ho preso l’occasione di queste ultime vacanze per fare un giorno nella zona del confine nazionale friulano, con tappa al Sacrario di Redipuglia dove mi avevano raccontato è sepolto il fratello di mio nonno che si chiamava Gaetano Parolini, morto durante la I° Guerra Mondiale, il sacrario non è completamente vistabile per restauri che dovrebbero concludersi entro marzo 2020, ma sul sito del monumento mi hanno fatto vedere che Parolini Gaetano effettivamente è sepolto li.
La famiglia Parolini è quella di mia mamma, otto fratelli che si sono sposati e hanno avuto figli tutti qui a Bellusco, per cui il livello della “cuginanza” è molto ampio. Mi capita di parlare con qualcuno non originario del paese e magari salta fuori un nome e di dire: “certo che lo conosco, è mio parente”, dopo due o tre volte mi sento dire: “ma insomma sono tutti tuoi parenti a Bellusco”, no ovviamente ma siamo in tanti e anche strategicamente posizionati, i miei avevano la latteria, uno zio la tabaccheria e osteria del paese ed un altro zio un negozio di alimentari – salumeria. Se comprendiamo anche i fratelli del nonno nel parentado entrava anche un macellaio, una rivendita di vino, un falegname poi il figlio elettrauto, un imprenditore edile, tutti a Bellusco. Anche la terza generazione è largamente presente in paese.
I capostipiti: nonno Francesco detto “Cecc” di cui ho ereditato il nome e nonna Ambrogina ma chiamata “Bigina” anche perché di corporatura minuta. Le prime tre figlie femmine, mi raccontano che all’osteria il nonno veniva preso un po’ in giro perché non “arrivava il maschio”, e poi cinque maschi. Otto figli la prima del 1922 e l’ultimo del 1939.
I nonni avevano entrambi il cognome Parolini, entrambi di Bellusco ma venivano da due ceppi diversi, al di là del cognome le famiglie erano identificate per l’appellativo. Il nonno era degli “Spagnou” la nonna dei “Bision”, gli zii raccontano che gli “Spagnou” erano più solari socievoli, mentre i “Bision” un po’ più rigidi e infatti il nonno sapeva cucinare bene, la nonna meno, era più portata perle pulizie di casa, il rammendo e i lavori a maglia. Se avessi voluto mangiare un buon risotto avrebbe dovuto cucinarlo il nonno.
Le condizioni economiche dell’agricoltura, a partire, più o meno, dal XVIII secolo hanno influito sulla organizzazione sociale della famiglia, nella bassa pianura padana dove l’agricoltura era molto fiorente e gestita in modi imprenditoriale si consolida la grande cascina con la “famiglia patriarcale”, quella del film di Bertolucci “Novento”, per intenderci. A Nord della pianura l’agricoltura è meno produttiva e la famiglia si divide nella “famiglia mononucleare”, quella del film di Olmi “L’albero degli zoccoli”, sempre in mode esemplificativo. Spesso le famiglie, anche se divise, rimangono ad abitare nella stessa corte che ne prende il nome.
Le famiglie contadine della nostra zona avevano con un contratto ad affitto a grano, una quota fissa di grano (indipendentemente dall’annata) per l’affitto dei campi e della casa che il “fittavolo” raccoglieva per conto del proprietario. L’allevamento del baco da seta era spesso invece a mezzadria. Ogni famiglia aveva a disposizione dei locali ed una stalla, ma con pochi animali perché la gestione dell’agricoltura non permetteva il mantenimento di più animali. Il lavoro dei campi era largamente manuale per cui era necessario avere tanti figli, almeno per un periodo dell’anno, per portare a termine i lavori agricoli.
Proprio quando la famiglia di nonno Cecc era in crescita il proprietario terriero decide di vendere ai singoli affittuari, così, come la gran parte delle famiglie belluschesi, anche lui si indebita per poter comprare i terreni su cui lavorava, tra l’altro non attigui ma divisi secondo le caratteristiche produttive: un pezzo ai “marcion” o nei “quader”, nei “ger”, ai “garioul” e un pezzo di boschetto per la legna da riscaldamento. La casa e la stalla in “stal de matua”. Per diversi periodi dell’anno la manodopera famigliare era in esubero per cui la nonna va a lavorare nella filatura Carozzi con le figlie a dare una mano nella gestione famigliare (mi dicono che mia mamma aveva sempre un po’ del caporale). Quando diventano poco più grandi anche loro al lavoro in tessitura o a “fare i mestieri” nelle case di famiglie più facoltose.
I figli maschi invece iniziavano la loro carriera lavorativa alle dipendenze dello zio imprenditore edile ed erano quindi tutti in grado di fare i muratori, è così che si sono costruiti la casa. Si faceva realizzare all’impresa la parte portante e poi tutto il clan famigliare collaborava il sabato, la domenica (su dispensa del parroco) e nei pomeriggi per tutto il lavoro di completamento in “autocostruzione”.
Alla realizzazione di una di queste ho collaborato un po’ anch’io. La mia è stata la prima generazione che ha avuto la possibilità di studiare, questa cosa non era ben digerita dagli zii che si lamentavano “se tutti vanno a studiare chi farà andare la cazzuola?”. Avevo scelto il corso geometra per cui era abbastanza attinente al lavoro di autocostruzione e sono stato coinvolto nel dare il mio aiuto, li mi hanno visto lavorare e hanno sentenziato “meglio che continui a studiare, il lavoro manuale non fa per te”. La cosa che non andava bene era il fatto che continuassi a lavarmi le mani; cosa devo farci se la polvere di laterizio e del cemento mi dava fastidio e i guanti non erano ancora in uso corrente, comunque ho fatto una specie di “alternanza scuola – lavoro” ante litteram. Due i pranzi previsti per ogni cantiere, all’arrivo del tetto e a fine lavori.
L’animatore socio-culturale del parentado è stato lo zio Carlo, organizzatore di gite in pullman e pranzi di famiglia. Avevamo anche dei parenti lontani, una sorella del nonno, la zia Maria sposata a un Dozio, di cantone, la loro famiglia aveva dovuto trasferirsi a Pont Saint Martin in Valle d’Aosta perché lì si era sposta da Sesto l’acciaieria Viola in cui lavorava il capofamiglia. I parenti lontani venivano, oltre che nelle occasioni canoniche di famiglia, tutti gli anni, fino a poco tempo fa, anche alla festa del paese per vedere i carri e rincontrare i parenti, per noi andare a trovare la zia Maria era l’occasione di fare gite e vacanze in montagna.
I nonni ci hanno lasciato dopo 68 anni di matrimonio, come in una storia romantica a due mesi di distanza l’uno dall’altro.
Difficile sostituire anche il ruolo dello zio Carlo, ma qualcosa ogni tanto si combina lo stesso anche se la “cuginanza” si allarga sempre di più.

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