Barbara Kingsolver 4
“LA COLLINA DELLE FARFALLE”
Il libro è stato
pubblicato negli Stati Uniti nel 2012 e in Italia nel 2013.
La protagonista del romanzo si chiama Dellarobbia, sua madre
l’ha chiamata così perché pensava fosse un nome biblico, poi troverà che
corrisponde al nome di una confezione natalizia e solo molto dopo gli diranno
che il suo nome staccato è il cognome di una famiglia di artisti del
rinascimento italiano. Dellarobbia ha sposato Burley junior perché a 17 anni
era rimasta incinta, anche quando poi abortisce decide di rimanere nella
famiglia del marito: i Tunbow proprietari di terreni e di un allevamento di pecore
ai piedi dei monti Appalachi meridionali nel Tennessee. Dellarobbia vive un
rapporto insoddisfacente col marito, lo vede come un bambino non cresciuto;
infatti, tutti lo chiamano Cub come diminutivo di Cubby. Incapace di gestire
una famiglia, e succube della madre Hester e del padre Bur (Burley). La coppia
ha avuto poi due figli: Preston di cinque anni e Cordie di circa due anni.
Durante un tentativo ipotizzato di fuga dalla famiglia,
invaghita di un giovane ragazzo, mentre si reca all’appuntamento in un capanno
sui monti nei terreni dei Tunbow si imbatte in un fenomeno anomalo, una enorme
nube arancione che avvolge tutta la valle degli abeti. Intimorita e non
riuscendo a capire cosa fosse lo strano fenomeno decide di desistere e di
ritornare in famiglia. Dellarobbia si rende conto anche che probabilmente la
fuga con giovane ragazzo non sarebbe stata comunque la soluzione.
Qualche giorno dopo si scopre che la strana nube in realtà è
una grandissima colonia di farfalle monarca che inspiegabilmente e per la prima
volta ha occupato l’area. In un contesto di povertà materiale e culturale della
profonda provincia americana del fenomeno naturalistico si dà in parte una
lettura religiosa (il volere di Dio), dall’altra si prospettano anche qualche
possibilità di guadagno per lo sfruttamento turistico del fenomeno. Per Burt
diventano un intralcio per il rientro economico dai debiti, pensava infatti di
disboscare la collina e vendere il legname.
La notizia arriva ai media alla ricerca del fenomeno che fa
notizia, attirando ambientalisti, curiosi e turisti. Arriva anche Ovid Byron,
un docente dell’università della California esperto della farfalla monarca.
Ovid impianta un laboratorio nelle stalle dei Tunbow e si mette a studiare il
fenomeno. All’inizio Dellarobbia sembra trovare interesse nello studioso ma poi
il loro rapporto si sposta sul piano di lavoro, anche collaborativo ma
soprattutto di confronto culturale.
Ovid spiega che a causa dei cambiamenti climatici le
farfalle hanno cambiato le loro abitudini migratorie, scegliendo per lo
svernamento una valle che le avrebbe messe in pericolo di estinzione.
Si apre a questo punto del romanzo una serie di riflessioni
sui cambiamenti climatici, sulla conoscenza del problema e soprattutto su come
questo incide sugli aspetti sociali e quanto conti la formazione culturale.
Riporto ampi stralci del capitolo 11 dove il tema viene
fortemente evidenziato. È la parte di un colloquio tra Dellarobbia e Ovid
mentre stanno analizzando la moria delle farfalle:
“La farfalla che aveva sulla
mano sbatté le ali e Dellarobia la sollevò verso la luce. Si vedeva ogni
singolo graffio sulla superficie lucida delle ali, come le lenti di un vecchio
paio di occhiali. «Se solo potessero accoppiarsi e deporre le uova» disse. «Non
dico di portarle tutte in Florida, magari solo una parte, in modo che superino
l'inverno!»
Lui alzò la testa, guardandola
negli occhi. «Non è compito mio, Dellarobia».
Dellarobia rifletté sulle sue
parole. A chi apparteneva una specie? Esisteva qualche legge in proposito? Si
sedette sulla sedia da campo. Il dottor Byron sembrava quasi irritato e si
voltò a guardare il fascio di appunti sul tavolino. «Non sono il guardiano
dello zoo» disse. «E non sono neppure qui per salvare le monarca. Sto solo
cercando di capire».
Dellarobia provò un moto di
stizza. «Chi può salvarle, se non voi?» […].
«La salvezza è un problema di
coscienza» disse il dottor Byron. «Non riguarda la biologia. La scienza non ci
dice quel che dobbiamo fare. Ci dice solo come stanno le cose».
«Forse è per questo che non
piace a nessuno» ribatte Dellarobia, sorpresa dalla propria impertinenza.
Anche Ovid pareva stupito.
«Come sarebbe?»
«Mi scusi, forse non so quello
che dico. Lei mi ha spiegato il cambiamento del clima e le conseguenze
pazzesche che può avere. Ma la gente non ci crede, mio marito, quelli che
parlano alla radio. Dicono che non ci sono prove a dimostrarlo».
«Le cose che le ho detto,
Dellarobia, sono certe e condivise dagli scienziati in tutto il mondo. Non
credo che quelli della radio siano uomini di scienza. Perché la gente dovrebbe
comprare l'olio di serpente al posto delle medicine?»
«È quello che stavo cercando di
dire: voi non siete amati. Forse la vostra medicina è troppo amara. O forse non
volete neanche vendercela, perché siete convinti che non possiamo capire.
Dovreste cominciare a parlare con i bambini dell'asilo, partire da lì».
«È troppo tardi, mi creda».
«Non lo dica neanche per
scherzo, io ho dei bambini piccoli!»
Ovid annuì lentamente. «Non è
sempre stato così. Una volta noi scienziati non eravamo tanto antipatici alla
gente».
«Lo so, Herbert Hoover è
perfino diventato presidente!» L'enciclopedia di Preston si stava rivelando
utile.
Ma Ovid non sembrava affatto
divertito. «Mi riferivo a tempi più recenti. Quindici anni fa, la gente era a
conoscenza del riscaldamento globale, almeno in termini generali. Nei sondaggi,
le persone rispondevano cose del tipo: sì, esiste ed è un problema.
Conservatori e liberal. Ora invece l'opinione pubblica è spaccata a metà».
«Be', sì, la gente ama
distinguersi. Come i bambini in una famiglia. Devono marcare il loro
territorio. C'è il cocco dell'insegnante e il monello».
«Per cui da una parte ci sono
le persone calme e istruite che credono nel monito della scienza, e dall'altra
gli scalmanati che negano il problema?»
Figli e figliastri, insomma. […]
«Io penso che le squadre siano
già fatte» disse. «Noi, i campagnoli, portiamo le armi e i trattori e i
fagiolini sott'olio, non ci piacciono le moine ma ci curiamo del prossimo. Gli
altri indossano vestiti costosi, fanno il riciclaggio e il controllo delle
nascite e hanno la vita facile, come i suoi studenti che pretendono il massimo
dei voti».
Ovid la guardò stupefatto. «Sta
dicendo che si tratta di un conflitto fra aristocratici e plebei?»
Dellarobia ricambiò lo sguardo.
«Non mi pare di aver detto niente del genere».
«Ma la sostanza era quella.
Però lei sta dimostrando che c'è qualcuno nella vostra squadra capace di
rompere le barriere, mentre gli altri auspicano una società retriva che vive
nel solco dell'aratro».
«Oh!» fece Dellarobia.
«Non crede che le frontiere di
questo piccolo mondo siano già crollate?»
«Forse. Può essere. Be', no.
Dipende».
«Cioè?»
«Se è vero quello che dice lei,
andrà tutto in vacca comunque. E poi che si fa? Si ricomincia da capo?»
Ovid non fiatò. Dellarobia
sapeva di essere stata poco rispettosa, parlando in quel modo. Era come una
religione per lui, come un figlio, una cosa che ti tiene sveglio la notte. «Mi
scusi» disse. «Il fatto è che l'ambiente appartiene all'altra squadra. La gente
come noi non può permettersi certe preoccupazioni, dice mio marito».
Il dottor Byron aggrottò la
fronte. «Vuol dire che gli agricoltori non devono preoccuparsi della siccità o
delle inondazioni?»
«Pensa davvero che sarebbe
diverso se avessimo più informazioni? Per carità, chi è che può scegliere?»
«Le informazioni sono tutto ciò di cui disponiamo». Ovid la guardò negli occhi, cercando di mettersi a nudo, in senso figurato stavolta. «E tutti possono scegliere» disse. «Un uomo può guardare in faccia una verità scomoda o rifuggirla».
Dellarobia scrollò la testa.
«Mio marito non è un vigliacco. Una volta ha infilato il braccio
nell'imballatrice mentre andava, per sbloccarla. Stava per piovere e bisognava
far presto, altrimenti addio raccolto. Se è di avere le palle che stiamo
parlando. Lui e i miei suoceri affrontano la cattiva sorte sei giorni su sette,
e la domenica vanno a pregare per chi sta peggio».
Il dottor Byron sembrava
colpito, anche se probabilmente ignorava che erano in parecchi ad aver lasciato
un braccio nell'imballatrice. «Non te la scegli da te la tua parte» continuò
Dellarobia. «E una volta che ti sei fatta la nomea della ragazzaccia, te la
tieni per sempre. Io sono la bifolca col pick-up? Bene, lasciatemi scorrazzare
in santa pace».
Ovid aveva l'aria perplessa.
Forse conosceva di più le farfalle che gli esseri umani.
[…]
«Gli esseri umani sono animali sociali» disse lui. «È un dato di fatto, ci siamo evoluti in questo modo. Cogliere i segnali e rimanere all'interno di un gruppo sono doti fondamentali per la sopravvivenza, nella nostra specie. Ma mi piace pensare che noi scienziati siamo gli arbitri. Che possiamo parlare con tutte le parti in causa».
«Forse, può darsi. Ma non lei.
Mi ha sempre ripetuto che non vuole coinvolgersi troppo con la comunità, che è
qui solo per misurare e contare ... »
Okay, ora però chiudi il becco,
si disse Dellarobia.
«Proprio così» disse Ovid. «Se
ci impelaghiamo nei dibattiti pubblici, veniamo accusati dai nostri colleghi di
essere imprecisi o troppo categorici. Se non addirittura megalomani. Anche
parole semplici come "teoria" o "prova" acquistano un
significato diverso fuori dal mondo scientifico. E avere un largo seguito può
costarci l'etichetta di "studiosi di mezza tacca"».
Dellarobia era stupita: pensava
che gli accademici fossero dotati di più buon senso. Anche se essere uno
"studioso di mezza tacca" non equivaleva certo a "prostituirsi
al nemico".
«Per questo non parla con i
giornalisti, vero? Perché è evidente che li evita».
Il dottor Byron esalò un
sospiro così lungo che Dellarobia pensò a uno svenimento. «È una strada
insidiosa. Soprattutto per gli
ecologisti, come me.
L'ecologia è la scienza che studia le comunità biologiche. L'interazione fra le diverse specie. Non c'entra niente con il riciclo delle lattine. È una scienza sperimentale e teoretica, come la fisica. Ma appena parliamo in pubblico, compaiono gli striscioni».
«Ho avuto modo di rendermene
conto» fece Dellarobia.
«Ogni volta che sento qualcuno
di quegli smidollati parlare di ambiente, fregiandosi del titolo di
"ecologista", mi viene voglia di spaccargli una bilancia Mettler in
testa».
«Wow».
«Possiamo essere molto permalosi noi scienziati»”.
Sul finale del capitolo c’è un altro dialogo, divertente,
con il signor Akins, un ecologista di città.
Nel romanzo poi si tocca anche il tema del rapporto con i
mass media ricavandone un giudizio quasi sempre negativo, dove la voglia di
raccontare arriva a storpiare la realtà.
La crisi esistenziale personale a quella globale dell’ambiente
forse si supera soltanto con più formazione.
Un romanzo, come gli altri scritto molto bene e che affronta
temi di estrema attualità.