I nodi al pettine: l’alternanza scuola-lavoro
La “riforma Moratti” ha introdotto nel 2003 l’attività di
alternanza scuola-lavoro per gli istituti scolastici di secondo grado, in
teoria l’attività poteva essere svolta anche nei licei ma penso siano state
veramente poche le esperienze in questo senso. Per gli istituti professionali
l’alternanza ha assorbito un obbligo precedente già quantificato come monte ore
aggiuntivo, mentre per gli istituti tecnici si è attuato in parte all’interno
delle ore curricolari e in parte in orario aggiuntivo al termine delle lezioni.
Per diversi anni il coordinamento e la valutazione dei
progetti delle singole scuole è stato svolto dagli uffici scolastici regionali
che assegnavano anche le risorse economiche alle singole scuole. Il ministero
ha svolto una funzione di monitoraggio sull’andamento delle esperienze. I
progetti e i modelli di alternanza sono stati quindi diversi da regione a
regione, in alcune regioni ad esempio è stato assegnato un contributo anche ai
tutor aziendali. Il modello lombardo che conosco per avervi partecipato dal
2005 prevedeva una diversificazione di interventi a partire dal secondo anno in
cui non si svolgevano stage ma azioni di sensibilizzazione sulla realtà
lavorativa dei comparti affini agli indirizzi di studio e all’imprenditorialità
in genere. Queste attività riguardavano soprattutto incontri a scuola e visite
d’istruzione e non rientravano nelle spese coperte dal finanziamento
ministeriale. Nel terzo e quarto anno invece la scuola e le aziende avrebbero
dovuto elaborare un progetto didattico comune definendo le competenze che
l’attività avrebbe dovuto far acquisire agli studenti, nonché le modalità di
verifica e misurazione di queste competenze da parte sia del tutor aziendale
che da parte del consiglio di classe. Il gruppo di progetto misto,
scuola-azienda che ha elaborato il progetto avrebbe poi dovuto valutare il
progetto stesso.
L’alternanza scuola- lavoro coinvolgeva all’interno di ogni
istituto solo alcuni consigli di classe e in alcuni progetti solo alcuni
studenti della classe che avrebbero poi condiviso il racconto dell’esperienza
con gli altri compagni. Sono stati prodotti in quegli anni diversi strumenti e
materiali, dalla bozza di convenzione ai modelli per i progetti didattici e per
il “diario di bordo degli studenti” affinché gli stagisti potessero
rendicontare il tipo e la qualità dell’esperienza.
Il materiale è disponibile nel sito: http://www.requs.it/default.asp?pagina=3821
Le obiezioni nei collegi dei docenti è sempre stata molto
forte e, come adesso, andavano dall’accusa di “formare al precariato” allo
“sfruttamento gratuito di forza lavoro”, la realtà era, ed è rimasta, quella
che per il mondo produttivo l’alternanza è una complicazione in termini di
risorse e tempo impiegato e anche, non da ultimo, in tema di sicurezza sui
luoghi di lavoro. Ci sono stati, è vero, episodi, arrivati anche alla cronaca,
soprattutto nel settore turistico, di stage molto lunghi che si configuravano
come sfruttamento gratuito di manodopera.
Oltre alla difficoltà
di coinvolgere pienamente tutto il consiglio di classe, anche da parte
aziendale il coinvolgimento in fase progettuale è stato spesso difficile. Nelle
esperienze che coinvolgevano obbligatoriamente tutta la classe è emerso a volte
una difficile sensibilizzazione di tutti gli studenti, alcuni infatti nel
periodo extrascolastico preferivano trovare un qualsiasi lavoretto in nero ma
remunerato. Complessivamente si trattava di stage che arrivavano
complessivamente nel biennio a 200 ore. Su questo punto i datori di lavoro
segnalavano spesso la necessità di aumentare le ore di stage per arrivare a
conseguire una competenza. Negli anni si è proceduto a ridimensionare l’estensione
delle competenze inserite nei progetti.
L’alternanza raggiungeva una serie di obiettivi.
Innanzitutto aveva una funzione orientativa ponendo lo studente nel contesto
reale di lavoro attinente al proprio percorso scolastico, offriva inoltre l’opportunità
di sperimentare direttamente un contesto relazionale lavorativo diverso da
quello scolastico facendo presagire le competenze trasversali utili per inserirsi
in un contesto lavorativo. Si aveva la possibilità di apprendere conoscenze e
abilità professionali a volte in anticipo rispetto alla loro trattazione
teorica a scuola. Questo ultimo punto mi è sempre stato utilissimo, in quanto
insegnante di materie tecniche mi è capitato spesso che nello svolgimento
teorico di un argomento si inserisse uno studente riportando l’esperienza
diretta dello stage, comparando le proposte e riformulando quesiti.
Su questo tema la L.107/15 presenta alcune criticità. La
prima è quella dell’obbligatorietà e della definizione del numero di ore minimo
da dedicare. Un’altra volta si impongono percorsi didattici uguali per tutti e
non invece come opportunità per personalizzare il proprio curricolo. L’estensione
quantitativa dell’attività sta portando a soluzioni improprie come un notevole
numero di ore dedicate a lezioni frontali che invece di essere tenuti dai
docenti sono svolte da personale proveniente dal mondo del lavoro e non è detto
che questi sappiano gestire meglio degli insegnanti le lezioni frontali, anzi!
Ulteriore soluzioni che sta emergendo è l’attivazione dell’”impresa simulata”
che altra cosa, estremamente impegnativa dal punto di vista organizzativo, più
indirizzata verso l’imprenditorialità ma priva secondo me dell’esperienza
fondamentale dello stage. Mi riferiva un dirigente che riportava di casi di
altri colleghi che computerebbero all’interno delle 400 ore obbligatorie per i
tecnici e i professionali le ore curricolari delle materie professionali!
La “buona scuola” ha enfatizzato eccessivamente l’esperienza
dell’alternanza confondendola con la formazione duale che è tutt’altra cosa in
termini di contenuti e di organizzazione, direttamente finalizzata all’inserimento
al lavoro, esperienza utilissima ma che va impostata complessivamente come un
vero e proprio canale formativo.
È chiaro che alla luce dei nuovi obblighi di legge vanno
completamente rivisti i precedenti progetti di alternanza mantenendo gli
obiettivi positivi dei vecchi progetti: valenza orientativa, confronto diretto
col mondo del lavoro, valorizzazione delle competenze trasversali e
acquisizione di conoscenze e abilità professionali anche invertendo il momento
applicativo con quello teorico. In uno dei confronti che in questi anni la Rete
dell’alternanza delle scuole della Lombardia ha organizzato anche con la SUPSI del
Canton Ticino il suo direttore sintetizzava l’impostazione in uno slogan:” c’è
chi impara con gli occhi e chi impara con le mani”.
Ulteriore elemento di novità sono le risorse assegnate alle
scuole che sono effettivamente ingenti e vincolate all’alternanza (sempre in
nome dell’autonomia) che se si manterranno negli anni futuri possono permettere
coperture di costi prima impossibili come la progettazione, il tutoraggio
scolastico, le spese di trasporto degli studenti, le spese delle uscite
didattiche finalizzate, la dotazione dei Dispositivi di Protezione Individuali
per gli studenti e altro, sperando che non siano sprechi.
Rimane il problema atavico della scuola superiore italiana,
quello di coinvolgere tutto il consiglio di classe almeno in modo non
oppositivo.
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