L’Amazzonia e il consumo di carne nel Rapporto Brandt
Sulla scia della questione degli incendi e deforestazione
dell’Amazzonia sono andato a riprendere in mano il “Rapport Brandt”,
pubblicato nel 1979 dieci anni prima della caduta del muro di Berlino. La Banca
Mondiale cosciente che la questione politica mondiale si sarebbe spostata dallo
scontro Est-Ovest a quella degli squilibri Nord-Sud, propose all’ex cancelliere
tedesco e presidente dell’Internazionale Socialista Willi Brandt di coordinare
una serie di studiosi provenienti da diverse parti del mondo uno lavoro sugli
squilibri Nord-Sud e sulle prospettive future. Il rapporto è stato pubblicato
in Italia da Mondadori nel 1980. Ne venni a conoscenza penso nello stesso anno
in una tavola rotonda organizzata sul tema presso la Pro Civitate Christiana di
Assisi in cui, tra l’atro, mi è talmente rimasta impressa una frase di Lidia
Menapace che me la ricordo ancora: siccome il disequilibrio è talmente elevato
che dovremmo prepararci ad un consistente ed inevitabile spostamento di massa
dal Sud verso il Nord del mondo, possiamo affrontare questa situazione o in
termini militari, preparandoci a difendere militarmente le nostre condizioni di
vita oppure potremmo prepararci a questo nuovo mescolamento di popolazioni e
culture preservando e valorizzando il meglio della nostra civiltà per passarlo
alla nuova situazione. (Era il 1980!).
Riletto ora parecchie cose sono notevolmente cambiate, c’è
stata la globalizzazione, alcuni paesi dell’estremo Est che erano compresi tra quelli
del Sud del mondo hanno avuto una crescita economica molto consistente, alcune
guerre che si sono fatte e si fanno, indirettamente ci permettono di continuare
a mantenere il nostro livello di consumi, forse l’Africa continua a rimanere
nella situazione di più forte squilibrio sociale, economico e culturale.
Comunque, sono andato a riprendermelo perché mi ricordavo
che anche lì era già stato sollevato il problema della deforestazione per l’allevamento
del bestiame. Dentro il rapporto, nel capitolo “fame e cibo”, a pg. 135 della
pubblicazione in italiano si legge: “I ricchi del mondo potrebbero
contribuire ad aumentare la disponibilità di generi alimentari […] consumando
meno carne; infatti, produrre un’unità di proteine carnee comporta l’impiego di
otto unità di proteine vegetali, che potrebbero invece venire direttamente
consumate. Laddove gli animali che si nutrono di erba non richiedono cereali,
il pollame e il bestiame nutriti a cereali ne consumano enormi quantitativi e
precisamente da 3 a 9 chilogrammi per ogni chilogrammo di carne di pollo o di
bovino edule, sufficienti a sopperire ai bisogni di una vasta percentuale delle
popolazioni affamate del mondo mediante prodotti cerealicoli.” (Scritto nel
1979!)
La questione, come quella della emissione di CO2, rischia di
assumere i toni di un neocolonialismo: per mantenere il nostro livello di benessere
altre popolazioni devono vivere in condizioni di disagio per proteggere le
risorse di tutti, perché la Terra è una.
Non si tratta probabilmente di diventare tutti vegetariani
ma di stare più attenti, se ci è consentito veramente, alla provenienza dei
cibi che compriamo cercando di non compromettere risorse di altre popolazioni.
Bisogna inoltre che un riequilibrio delle risorse permetta a tutta la
popolazione mondiale di vivere in buone condizioni economiche, sociali culturali
e di opportunità senza compromettere le risorse delle future generazioni.
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